Quindici anni fa ho scelto di dedicare la mia vita a fare libri. Metterne con cura insieme gli elementi che li rendono concreti: autori, testi, carte, idee, immagini e colori, traduttori, agenti e molti altri. Un mestiere appassionante quando ti consente di interpretare un bisogno di riflessione e conoscenza, irripetibile quando ti offre la possibilità di anticipare ed esprimere una domanda che attende di trovare modi e luoghi per essere posta.
Da alcuni anni questo straordinario lavoro è divenuto una corsa a ostacoli, forse anche per errori o troppa ostinazione, certamente a causa di un contesto in cui i libri rappresentano un dono che sempre meno persone fanno a se stesse [1]. Soprattutto quei volumi che chiedono tempo e fatica, che a volte devi leggere con un dizionario accanto o che puoi comprendere solo se ne hai letti altri che ti consentono di ricostruire le piste, a volte sottilissime, di un pensiero critico sul presente che non si adagia in semplici risposte o in osservazioni falsamente neutre.
Il mercato dei libri, come l’informazione, in Italia (e non solo qui, come già dieci anni fa denunciava André Shiffrinnel suo Editoria senza editori) è bloccato [2], ridotto a rigenerare per lo più il medesimo “prodotto” finché il circolo (vizioso) ne sostiene la vita finanziaria: ricerca del best-seller, titoli-cloni, semplificazione di linguaggio e struttura dei testi, promozione e recensioni organizzate, distribuzione e commercio ormai militarmente occupati dalle grandi concentrazioni editoriali e dalle catene di vendita. Eccezioni ovviamente ci sono, alcune nicchie resistono, piccoli editori con buone vendite di un libro o di un autore sopravvivono. Ma di eccezioni si tratta.
La Meltemi, per esempio, con le vendite in libreria non rientra neppure dei costi di produzione [3] ed è indispensabile cercare finanziamenti a monte: dalle istituzioni (fondazioni, università, associazioni), dagli stessi autori (che rinunciano ai diritti e/o acquistano copie), da privati (filantropi o persone interessate a farsi pubblicità attraverso il libro). L’editoria di ricerca, in Italia e non solo, vive grazie a questi contributi, non sempre trasparenti e spesso risultato di scelte che poco hanno a che fare con il merito e la qualità dei testi.
Non è questa la sede per entrare nel dettaglio dei meccanismi perversi che ho tratteggiato, il risultato è chiaro, però: gli spazi per tutto quanto “non conforme” si vanno gradualmente riducendo (e aggiungo, per gli ingenui o chi non vuol capire, che conformi sono anche, per esempio, tanti pamphlet di denuncia pienamente integrati nel sistema).
A questa situazione sconfortante si aggiungono le pratiche di “autodifesa” dei lettori (soprattutto gli studenti, tenuti ad acquistare i libri per lo studio): fotocopie e, sempre più spesso, file piratati reperibili on line. Non a caso le chiamo pratiche di autodifesa, poiché considero la necessità di risparmio per l’acquisto dei libri un problema reale (anche se ricordo che la sola spesa per “gratta e vinci” in Italia è circa due volte e mezzo il fatturato del mercato editoriale…).
In coloro che scelgono di scaricare un libro dalla Rete, come ho sostenuto anche qui, pur se contravvenendo le attuali norme sul diritto d’autore, io non vedo pericolosi criminali. Vedo piuttosto persone, spesso ma non sempre giovani (come mostra Luca Neri nel suo La baia dei pirati), che sempre più si abituano a cercare in rete i contenuti in formato digitale: se li trovano disponibili a prezzi contenuti di frequente li acquistano, altrimenti se li procurano, esattamente come fanno con i file musicali o cinematografici. E questo avverrà in misura sempre maggiore con la diffusione (e il relativo abbassamento dei costi) dei lettori di e-book, che superano gli inconvenienti della lettura sugli schermi retroilluminati e consentono l’archiviazione di quantità enormi di dati in un supporto di dimensione e peso inferiori a quelli di un libro.
Con un po’ di ritardo, ma con molte probabilità, avverrà per i libri ciò che è accaduto a cd e dvd, e che sta travolgendo l’informazione quotidiana: come da tempo in diversi sottolineano, recentemente con particolare assiduità Giuseppe Granieri (qui discute dell’e-book come “format” per il web e di self-publishing, ma molti post sono dedicati all’argomento).
È un male che questo accada? Secondo me no.
Poiché penso, compiendo un passo ulteriore rispetto alle valutazioni interne a una logica di mercato (quelle cioè che vedono in Amazon, iTunes, YouTube o altri dei campioni anticipatori che riescono a guadagnare dove altri falliscono [4]), che i punti sui quali dovremo confrontarci riguardano i temi della proprietà intellettuale, della conoscenza come bene comune e della libertà della Rete.
Per quel che riguarda la proprietà intellettuale, il passaggio dei diritti d’autore dalle mani degli editori tradizionali a quelle di piattaforme come Amazon (che sempre più si qualifica come un operatore a tutto campo nel mondo del libro), non garantisce affatto una maggiore libertà d’uso, disponibilità e conservazione dei contenuti digitali. Cambia il formato dei contenuti (dal libro al file, dagli atomi ai bit), diminuiscono vertiginosamente i costi di produzione e distribuzione, si moltiplicano le possibilità di circolazione, ma non cambiano le regole che potrebbero consentire, un giorno o l’altro, a operatori quali Apple, Google o Amazon di stabilire prezzi e determinare le scelte del mercato (che non è libero, soprattutto quando si profilano, come in questo caso, concentrazioni monopolistiche), esattamente come avviene oggi per l’editoria tradizionale.
Il problema da affrontare in questo ambito è, dunque, se consideriamo l’attuale normativa sul diritto d’autore un moloch immodificabile (o modificabile, come è avvenuto negli ultimi decenni, solo verso una sua estensione in termini di durata e di “oggetti protetti”), oppure se iniziamo a valutare le diverse opzioni che vanno diffondendosi tra autori e detentori di brevetti (le principali: Creative Commons, GNU General Public License, GNU Free Documentation License [5]) come percorsi possibili per un cambiamento legislativo che tuteli effettivamente gli autori, i contenuti e chi ne fruisce e non solo (o quasi) chi ne fa commercio. O ancora, se intendiamo restare con le mani in mano, mentre le grandi concentrazioni dell’entertainment e delle telecomunicazioni (vedi ad esempio le ombre contenute nel pur importante “Pacchetto Telecom” approvato dal Parlamento europeo lo scorso novembre) sferrano ulteriori attacchi contro gli utenti di Internet (più o meno sostenuti dai governi) per resistere a una capitolazione alla quale sono ormai consapevoli di essere destinati.
La questione si sposta quindi su quale sia la nostra visione della conoscenza, alla luce della trasformazione dei contenuti da analogici in digitali e della illimitata possibilità della loro circolazione attraverso Internet. Faccio mie, in proposito, le diverse proposte elaborate da Elinor Ostrom (Nobel per l’economia nel 2009 grazie ai suoi studi sull’organizzazione della cooperazione nella governance economica) e dagli autori dell’approfondito volume La conoscenza come bene comune, e tento di offrirne una sintesi (estremamente semplificata, ma ne avevo scritto più estesamente qui).
Privatizzare e recintare il mondo dei saperi (nelle loro nuove forme digitali) o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia molteplici questioni: dalle forme e garanzie dell’accesso (divari digitali e culturali) alla tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori delle opere, dilatando la discussione dalla gratuità o meno dei contenuti alla certezza della loro disponibilità; una domanda che implica risposte di governance che considerino la conoscenza in Rete come un bene comune e un diritto di cittadinanza, riconoscendone il valore di sistema estensivo del mondo relazionale e informazionale della nostra società.
In questa sfida siamo tutti coinvolti: singoli cittadini, imprese, istituzioni; ma appare evidente come siano necessari e impellenti orientamenti politici chiari che non contrastino solo a parole, o con prese di posizione occasionali connesse all’opposizione sugli ennesimi legge, decreto o progetto di legge (dalla Hadopi in Francia, al Digital Millennium Copyright Act negli Stati Uniti, alla pletora di provvedimenti approvati o in arrivo in Italia), strategie di limitazione, censura, soffocamento della libertà della Rete presenti, pur con diversa aggressività, ovunque nel mondo.
Su alcune proposte, sia sotto il profilo imprenditoriale (come casa editrice) che in termini politici, tornerò più avanti (anche per non estenuare gli impavidi che hanno avuto la tenacia di leggere fino a questo punto). Nel frattempo, riassumo nei due punti seguenti le piste lungo le quali intendo muovermi, nell’una e nell’altra direzione:
- individuare, in accordo con gli autori, forme di accesso libero e gratuito ai contenuti che ne garantiscano la permanenza nel tempo e non “recinzione” e che coesistano con la vendita dei file digitali dei libri a prezzi competitivi con il mercato delle fotocopie;
- elaborare un piano di politiche attive che non si limitino alla difesa della neutralità della Rete, ma stimolino la partecipazione dei cittadini alle discussioni e deliberazioni pubbliche, alla condivisione dei contenuti, alla disponibilità e democratizzazione delle informazioni della Pubblica Amministrazione [6], a partire dai contenuti della Carta per l’Innovazione, la creatività e l’accesso alla conoscenza sottoscritta a Barcellona nel novembre scorso.
L’impegno che considero non più rinviabile, almeno per me, oltre a promuovere e sostenere ogni iniziativa di contrasto alle politiche nazionali che minano le libertà di Internet, come quelle che ci hanno spinto a indire lo sciopero dei blogger il 14 luglio scorso, a sottoscrivere la “Carta dei Cento“, a lanciare l’appello “Libera rete in libero Stato” lo scorso mese di dicembre, ad aderire alla nuova iniziativa in cantiere dei Corsari della rete e a quelle programmate dai pirati per il prossimo futuro, è quello di intraprendere un’azione propositiva sui due terreni nei quali ho la possibilità di esprimere più che una protesta.
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Note
[1] I dati in Italia parlano chiaro: i lettori “forti” restano una minoranza e cala il fatturato del settore.
[2] Nelle discussioni seguite alla pubblicazione del libro in Italia molti operatori del settore commentarono che noi eravamo ancora distanti dalla drammatica situazione nordamericana e che la vivacità e pluralità del mondo editoriale italiano avrebbe sviluppato anticorpi sufficienti a evitare l’affermarsi di monopoli e concentrazioni pari a quelli statunitensi. Viene da ridere a fotografare oggi la situazione del mercato editoriale librario in Italia: 6 gruppi da soli detengono circa il 70% del mercato (Mondadori con il 30%, oltre a RCS, GEMS, De Agostini, Giunti e Feltrinelli), altri 50 editori si dividono una fetta di circa il 20% e i restanti più o meno 7000 spetta il residuo 10%.
[3] Nell’anno di uscita, in media, ogni titolo vende circa 200 copie, ma negli anni successivi le vendite calano drasticamente, anche a causa dell’espulsione dalle librerie. Il 60% circa del prezzo di copertina va a coprire i costi di distribuzione (45-50% di cui il 25-30% è destinato alle librerie), promozione (8-10%), magazzino e trasporti (5-6%). Su un volume che costa 10 euro, quindi, 6 euro vanno in costi successivi alla produzione. Gli altri 4 euro dovrebbero riuscire a coprire i costi tipografici, redazionali, i diritti d’autore e i costi fissi della casa editrice. Vendendo 200 copie il ricavo è di 800 euro: non ci si paga neppure la tipografia, appunto; e per di più quegli 800 euro arrivano all’editore almeno tre mesi dopo la vendita delle copie, obbligando a ricorrere al credito bancario, con i suoi costi ulteriori.
[4] Un autore fondamentale per comprendere tale posizione è Chris Anderson, direttore della rivista Wired; di lui si vedano: La coda lunga e Gratis.
[5] Esempi ce ne sono tanti. Qui citavo quello di Ilaria Capua, ricercatrice italiana che non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato quando ha deciso di registrare l’esito delle proprie ricerche in un archivio digitale aperto anziché cederlo all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
[6] Su questo tema mi sono già impegnata durante la campagna elettorale per le europee, sottoscrivendo il Patto per il software libero.
10 commenti da “I libri, la Rete, la politica”
Ciao Luisa,
Spero tu stia bene….di salute almeno
Il commento è che se condivido quello ceh scrivi, da una parte, mi chiedo com’è la situazione per i libri nelle scuole.
Fermo restando il pericolo delle grandi concentrazioni anceh su contenuti digitali, credo ceh il prtoblema che poni sia ancora e tanto amplificato!
grazie
Ciao Ivano,
sto benino, grazie.
Nell’editoria scolastica in Italia la situazione è anche peggiore: di fatto esiste una sorta di cartello, che non a caso ha provocato un accertamento della guardia di finanza presso la sede dell’Associazione Italiana Editori e successivamente una dichiarazione del Garante della Concorrenza e del Mercato:
http://www.agcm.it/agcm_ita/COSTAMPA/COSTAMPA.NSF/0af75e5319fead23c12564ce00458021/4f941c618bd7b8b5c12574400053e870?OpenDocument
Ma questo, se non ci limitiamo all’Italia, è un minuscolo problema rispetto ai contenuti digitali nel loro insieme.
Cara Luisa,
hai fatto un’analisi e delle proposte che condivido riga per riga. Posso pubblicare il tuo pezzo su “la Voce di Fiore”?
Un abbraccio, con sincera stima e ammirazione.
emiliano
Grazie Emiliano, anche per la diffusione.
Ciao Luisa, come sempre i tuoi ‘pezzi’ sono diretti, chiari e propositivi. In particolare oggi ho apprezzato il distacco e il pragmatismo di un’analisi che avrebbe potuto invece essere ‘di parte’ senza che per questo se ne perdesse, in buona parte, lo spessore. Ma della tua onestà intellettuale non necessitavano ulteriori conferme.
Hai pienamente colto, anche in questa occasione, il nocciolo del problema dei tempi, vale a dire che non si contrasta la crisi dell’editoria con soluzioni aggressive e restrittive contro la cosiddetta ‘pirateria’. La difesa del ‘frutto dell’ingegno’ può e deve legittimamente essere fatta, ma non senza calarsi nel contesto reale e dunque abbandonando stereotipi ‘antichi’. I più avanzati fra gli intellettuali, artisti e musicisti hanno compreso che non si svuota il mare col cucchiaino e assecondano i fenomeni con lungimiranza. Il ‘passaggio’ al digitale non è cosa soggetta a scelta da parte di chicchessia. Certo, si può andare col calesse da Roma a Salerno, anche oggi, volendo, ma è un’offesa all’intelligenza per compiacere un luogo romantico e anacronistico che nella nostra mente ancora ci affascina. Se poi, come in realtà accade, sono gli aspetti finanziari che dominano la scena, allora, a maggior ragione, è indispensabile abbandonare il calesse e inventare il motore a scoppio…meglio tardi che mai.
Come tu stessa hai sottolineato, le grandi major del settore, ma di ogni settore, tendono a conservare il potere acquisito su altre piattaforme per trasferirlo in questo terzo millennio….ma questo fa parte del gioco, non a caso sono diventate major. Credo che sia importante proporre e promuovere una legislazione adeguata, non tanto per la difesa dello statu quo, ovviamente, ma per garantire spazi alla pluralità e la diversificazione dell’offerta in ogni piattaforma che la tecnologia, sempre più avanzata e capillarmente diffusa, metta a disposizione.
Ciao, a presto, Carlo
Carlo,
grazie del commento.
Hai colto il nocciolo della questione: il passaggio da un mezzo all’altro (libro di carta – libro elettronico) non è di per sé la soluzione dei nostri problemi, se la gestione della comunicazione e dell’informazione viene lasciata ad operatori che (legittimamente) fanno i propri interessi.
La Rete è uno strumento straordinario, e lo stiamo comprendendo, soprattutto attraverso un uso meno superficiale dei social network. Ma ne va garantita la libertà e vanno avviate, a tutti i livelli (amministrazioni, imprese, ecc.), pratiche di espansione della democrazia partecipativa al suo interno.
Questo obiettivo si può raggiungere solo se abbiamo chiaro in mente che ciò di cui stiamo discutendo è la rivoluzione del nostro tempo, osservazione che tu ripeti spesso.
Un caro saluto
[Mi scuso per questa duplicazione (ho già lasciato questo commento su FB) ma preferisco questo spazio di discussione, dove gli spazi e i tempi sono meno ristretti. Grazie, Luisa]
Il problema della proprietà intellettuale è molto complesso e meriterebbe un ulteriore approfondimento. Nel campo della ricerca scientifica, ad esempio, si assiste al dominio incontrastato di un ristretto oligopolio di grandi marchi editoriali (Elvevier, Springer e pochi altri) che dettano legge sul mercato e impongono alle biblioteche universitarie tariffe di abbonamento a costi insostenibili (questo vale per l’editoria cartacea ma, ancor più, per l’editoria elettronica). Per questa ragione si sta facendo strada (a dire il vero molto lentamente, soprattutto in Italia) il movimento per l’accesso aperto alla conoscenza scientifica (Open Access) che invita i ricercatori a depositare una copia dei saggi/articoli frutto della loro ricerca in depositi istituzionali liberamente accessibili in Rete a tutta la comunità degli studiosi.
Il problema è che poi l’attività scientifica di un ricercatore viene valutata in base al “peso” delle riviste sulle quali riesce a pubblicare i propri risultati: le riviste di maggior prestigio finiscono per dettare legge sul mercato, facendo leva su questo meccanismo perverso che gli stessi docenti/ricercatori non riescono a contenere.
Ciao Elena.
Conosco bene le questioni cui ti riferisci.
Open access e proprietà intellettuale non si sovrappongono e vanno utilizzati strumenti e piattaforme diversi.
Nel mio post ci sono molti riferimenti per approfondire, comprese le modalità per dare visibilità e autorevolezza ai contributi depositati negli archivi aperti, come nel caso della ricercatrice che ho citato.
Si può fare, basta crederci e non pensare che a iniziare debba essere sempre qualcun altro.
Grazie e a presto
Ciao Luisa, intervengo un po’ in ritardo perché il tuo post è bello denso di questioni complesse che richiedevano di pensarci su.
Una cosa che mi piace di quello che scrivi è che ti preoccupi insieme del futuro dei libri e della libertà di internet: non cadi, cioè, nel tranello di mettere in competizione le due questioni. Benissimo.
Ho amici che pubblicano per Meltemi e sono un lettore, perciò la conosco come una casa editrice colta e che cura autori e prodotti come poche. Inoltre è una delle poche che hanno una presenza in rete intelligente, al di là dei cataloghi on line.
La mia conoscenza diretta, invece, è limitata a una esperienza deprimente – un editore che dopo sei mesi dalla pubblicazione smise di occuparsi anche della mancanza di distribuzione, convinto che tanto la gente compra un libro in internet semplicemente perché c’è – e una più recente e assai più soddisfacente: ma qua mi interessa la prima.
Ora la prendo alla lontana.
Prima di fare il mio mestiere e di diventare spettatore di quel che accade fra i libri, il mio settore di riferimento era la musica (vengo dal mondo delle radio private e dei programmi specializzati, sebbene amatoriali). Assisto solo in questi anni alla parziale soluzione di un problema che scaldava i dibattiti quando avevo vent’anni.
L’avvento del cd aveva reso ancora più tragica la questione della registrazione casalinga: con un pc potevi avere una copia pari pari del cd originale, mica come le pallide riproduzioni dei vinili su cassetta!
Attraverso le riviste del settore litigavo coi discografici che non capivano quello che stava accadendo e non conoscevano quel pubblico che, per passione, cercava di mettersi nello scaffale quattro cd avendone comprati due a un prezzo esosissimo.
E poi – pianto e stridore di denti! – arrivarono internet e il file sharing.
Oggi l’industria discografica comincia a capire Internet e a usarla: puoi scaricare una canzone a 99 centesimi. Non ti sveni ma nemmeno danneggi gli artisti. Ti scarichi un file di qualità audio garantita e non imbarchi virus.
Certo, questa trasformazione ha richiesto a tutti un cambio di paradigma, per gli editori e per gli artisti (e per i commercianti che l’hanno voluta capire): per dirne una, l'”unità di misura” del prodotto musicale è tornata ad essere il singolo brano (come negli anni 50 e 60 e ai tempi belli del 45 giri: mica niente di nuovo, in fondo!) e non più il “long playing”. Accanto, il vecchio “oggetto del desiderio” – il cd – continua a vivere: però è soltanto una delle forme nelle quali si manifesta la musica. Nello stesso tempo questa torna ad essere disponibile anche per le tasche più in difficoltà, con nuove speranze per la sua diffusione. E con nuovi spazi di libertà per i prodotti “non conformi”: su i-Tunes ci sta Michael Jackson, ma anche l’artista che si autoproduce con un budget domestico.
Oggi si può dire che quello che ha determinato tanti mal di pancia che si potevano evitare era il fatto che quella gente, invece di domandarsi “se questo è quel che succede, come posso cambiare per starci dentro?”, si domandava “come posso fermare questo fenomeno che non conosco e che non so come governare?”. E non si curava nemmeno di conoscerlo!
Ben felice, insomma, che da un’editrice “di carta” arrivi una difesa autorevole come la tua per il mondo della rete.
Al momento mi pare di distinguere, nell’editoria tradizionale, quattro realtà diverse:
– quelli che non capiscono la rete e se ne tengono a distanza;
– quelli che non capiscono la rete e la usano, male (non solo editori: pensa a quegli autori, tanti, che si fanno un account su Facebook e lo usano in maniera passiva, ti chiedono l’amicizia senza nemmeno dirti perché e postano giusto la pubblicità delle presentazioni pubbliche del loro libro);
– quelli che cominciano a vedere le possibilità di una integrazione creativa con la rete;
– quelli che ci si buttano a capofitto.
In quest’ultima ci metterei alcuni esperimenti interessanti di libri cartacei pubblicati anche gratuitamente on line che, in virtù di questa doppia presenza, hanno aumentato di parecchio le vendite in libreria. La prova che la versione scaricabile e gratuita non limita necessariamente le vendite: può anzi incoraggiarle!
Quel che accade nelle ultime due categorie, secondo me, dà un’idea di come potrebbe essere (di come sarà) un mondo in cui la carta e il digitale lavoreranno insieme.
Penso alle possibilità (gratuite e facilissime da usare!) che il “mondo piccolo” della rete e dei social network offre per far conoscere un libro a un pubblico di intenditori. Penso al fatto che i blog sono diventati (lo dice bene Luca De Biase in “Economia della felicità”) un punto di riferimento per scegliere un libro da acquistare. Penso a quei blog che sono il prolungamento e la continuazione di un libro dello stesso autore. Penso anche a quei libri che leggi in pdf e poi dici “tutto sommato è ben stampato, nello scaffale ci sta bene e in treno è più comodo: per dodici euro…”.
Ora l’e-book arriva a cambiare ancora una volta le carte in tavola: vediamo chi saprà stare al gioco con le nuove regole e saprà coglierle come un’opportunità.
Ciao, Luisa, e grazie.
PS: se il mio ti sembra un punto di vista troppo ingenuo, fammi sapere.
Ciao Massimo,
intanto ti ringrazio, aggiungendo che il tuo non è un punto di vista ingenuo, ma quello di un osservatore attento del mondo che usa intelligenza e buon senso per interpretarlo.
La tua esperienza maturata in campo musicale ti consente di vedere come quello stesso processo stia investendo l’editoria libraria (per non parlare della stampa periodica) con lucidità.
E mi sembrano azzeccate le quattro tipologie in cui si possono schematicamente dividere oggi gli editori.
Nel mio post, oltre ai passaggi che tu riprendi efficacemente, 1) crisi dell’editoria, 2) Internet (e libertà da garantire per la Rete), 3) e-book reader e gratuità dei contenuti, accennavo anche a un quarto punto.
Quando difendiamo la libertà della Rete non sempre pensiamo alla straordinaria potenzialità che essa ha per conservazione, circolazione e condivisione dei contenuti.
Un recente studio pubblicato sul Finacial Times offriva una panoramica sulla composizione ideale di una biblioteca americana che contenesse tutto il pubblicato fino al 2008.
Traduco i dati in percentuali: di tutte le opere pubblicate quelle fuori copyright assommerebbero a circa il 20%, le orfane (di cui non si conoscono gli autori) al 7-7,5%, quelle protette da copyright ma fuori catalogo (non stampate e non disponibili per i lettori) al 62%.
Le opere soggette a copyright e contestualmente disponibili per i lettori sarebbero perciò poco più del 10% del totale.
Un enorme patrimonio che potrebbe (e dovrebbe) essere di pubblico dominio, quasi il 90% del totale del sapere prodotto in forma di libro, potrebbe circolare liberamente in Rete senza alcun costo (o con costi bassissimi) per i lettori.
Certo, avremmo i costi di digitalizzazione di molte opere, quelli dei server che dovrebbero conservarli e renderli disponibili. Ma ti rendi conto di cosa stiamo parlando?
Le diatribe sui reader di e-book, sulla intramontabilità del supporto libro, sulla difesa della sopravvivenza commerciale degli editori mi sembrano davvero piccola cosa in confronto.