Lunedì scorso Lipperatura ha pubblicato la lista degli editori a pagamento e a doppio binario (quegli editori che prevedono il pagamento per una parte delle pubblicazioni). Una decisione che Loredana Lipperini ha preso in seguito alla rimozione della lista decisa dagli amministratori di Writer’s Dream, sito e forum nati su iniziativa di Linda Rando, prima a pubblicare la lista EAP e a subirne le conseguenze.
La quantità di commenti rapidamente accumulati nella pagina di Lipperatura (e altre parallele discussioni, per esempio su Twitter) dimostrano quanto spinoso sia l’argomento, quanto coinvolga gli autori e gli aspiranti tali e cosa possa accadere, scrive Lipperini in un commento, “quando si scoperchia un vaso di questo genere”.
Mi trovo in completo accordo con Loredana Lipperini e con chi sta pubblicando la lista in questo momento, sfidando minacce e querele; penso che la pubblicazione delle liste costituisca una risorsa “estrema” praticata da chi si oppone al velo di silenzio esistente attorno a queste pratiche. Un velo che nasconde troppo spesso business costruiti a spese di autori ingenuamente, o presuntuosamente, inconsapevoli e che inseguono impossibili sogni di successo. Preferibile sarebbe, da parte degli editori – a ciò serve la pubblicazione delle liste –, assumere comportamenti trasparenti e dichiarare quali sono le politiche editoriali adottate nella selezione delle opere per la pubblicazione, se e quali sono le forme di partecipazione al rischio della pubblicazione richieste agli autori. Cito ancora Lipperini:
E non per mettere sotto accusa nessuno, si badi: semplicemente per proporre all’autore una scelta consapevole. Nessuno condanna chi sceglie di pubblicare pagando, né chi decide di chiedere soldi all’esordiente come contributo. Forse, però, è corretto saperlo. [grassetti miei]
Per contribuire a questa “operazione trasparenza” vorrei allora iniziare dal racconto dell’esperienza personale che so assai diffusa nell’editoria di saggistica in Italia, augurandomi che altri editori attivi in questo ambito vogliano partecipare alla discussione.
La saggistica dedicata alla ricerca in Italia vende cifre irrisorie e far quadrare i bilanci è un’impresa più vicina all’impossibile che al difficile. Trattandosi di un dato assodato, autori, editori, traduttori e ogni figura coinvolta nella produzione di questo tipo di libri considera normale adoperarsi per finanziare l’edizione di opere che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere pubblicate.
I casi più frequenti riguardano le opere tradotte, le opere prime, gli atti di convegni e i libri collettanei, le riviste.
Opere tradotte
I costi di produzione di una buona edizione di un testo scientifico prevedono, oltre al pagamento dei diritti di traduzione all’editore dell’edizione originale, i costi di traduzione e (eventualmente) di revisione e commento al testo, in vista della sua presentazione ai lettori italiani. A questi si sommano tutti i costi standard previsti per qualsiasi pubblicazione (editing e correzione di bozze, carta e stampa, promozione e distribuzione, pubblicità nelle varie forme previste da un ufficio stampa).
Un editore sa che i valori delle vendite della gran parte di queste pubblicazioni non saranno in grado di coprire i costi di produzione, quindi, fin dall’inizio, si attiva per cercare forme di finanziamento che consentano l’operazione. Le più frequenti tra queste sono:
- contributi alla traduzione ottenuti dai Ministeri della Cultura dei Paesi in cui è stata pubblicata l’opera originale (in Europa, Francia e Spagna costituiscono i Paesi più attivi in tal senso);
- contributi alla traduzione elargiti dall’Unione Europea per contribuire alla circolazione delle lingue e delle idee (purtroppo, da alcuni anni, quasi annullati per la saggistica e orientati ai Paesi di più recente ingresso nella UE);
- contributi alla traduzione (o all’edizione) devoluti da un dipartimento universitario interessato alla pubblicazione dell’opera in questione.
Opere prime
Se le vendite sono mediamente basse per autori collaudati e docenti affermati (con ampio seguito di studenti e colleghi “amici”), diventano risibili per il ricercatore alla prima prova. E questo è un dato indipendente, tengo a sottolinearlo, dalla qualità dell’opera: più e più volte ho deciso la pubblicazione di meritevoli (a detta di molti) opere di giovani autori che hanno venduto (in anni di vita del libro) poche centinaia di copie. Quindi l’uso prevede, in questi casi, che un dipartimento (o, a volte, lo stesso ricercatore) si faccia carico di parte dei costi di edizione, oltre all’impegno a utilizzare il volume nei corsi propri e dei docenti amici, “obbligando” gli studenti ad acquistarlo. Naturalmente ciò avviene per i dipartimenti e i docenti che possono permetterselo (sempre meno, vedi tagli all’università), ma per molti pubblicare, e farlo con una casa editrice accreditata (vedi all’ambigua voce: editori che pesano di più nelle valutazioni concorsuali) significa sommare un mattone alle possibilità di carriera accademica. Qui si aprirebbe il capitolo, tra il desolante e l’orrido, riguardante le forme di reclutamento nell’Università: lo rinvio a una prossima puntata, ché pagina (ancorché virtuale) e stomaco (benché barbuto) hanno i loro limiti.
Atti e volumi collettanei
Qui non c’è discussione: si pubblicano solo opere che portino in dote all’editore un finanziamento. E ciò vale anche quando i testi vengono editati e rivisti dai curatori, quando gli autori (praticamente sempre) cedono a titolo gratuito lo sfruttamento economico del loro saggio, quando il lavoro dell’editore è, cioè, ridotto al minimo indispensabile e gran parte dei suoi costi si concentrano nei passaggi distributivo-commerciali, nonostante si tratti di opere che avranno una distribuzione in libreria irrisoria e la circolazione sarà per lo più basata sull’impegno degli stessi autori (adozioni in corsi, seminari, ecc.).
Riviste scientifiche
Come sopra: non si pubblicano senza un finanziamento su cui contare in partenza. Gli abbonamenti (anche delle più diffuse) si attestano sulle due cifre e sono drasticamente diminuiti con i tagli ai fondi delle biblioteche. La presenza in libreria è una chimera e la circolazione si basa essenzialmente sul passaggio di mano in mano da parte della redazione.
Questo il quadro nel quale opera la gran parte delle case editrici che pubblica “saggistica alta”: quelle opere di saggistica, cioè, dedicate a un pubblico di lettori certamente specialistico ma meritevole di vedere pubblicati i lavori innovativi, quelli che provengono da ambiti linguistici e/o culturali ai margini o fuori dal mainstream, gli studi di settore che aggiungono tasselli, minuti quanto si vuole ma importanti, al patrimonio di conoscenze collettive che in una parola chiamiamo “ricerca”.
È corretto precisare che la gran parte delle case editrici che opera in questo settore, quando pubblica utilizzando i finanziamenti di cui sopra, lo dichiara apertamente: basta prendere uno qualsiasi dei volumi o riviste cui faccio riferimento e aprirlo alla pagina delle gerenze per rinvenire l’indicazione della partecipazione ai costi di edizione.
L’operazione trasparenza, quindi, sembrerebbe inutile. Ma è davvero così? E, soprattutto, si tratta di un meccanismo sano? Ammettiamo che le cose funzionino come da descrizione e che le case editrici dichiarino apertamente la presenza di forme di contributo per l’edizione. Secondo voi, in base a quali criteri sarà più facile ottenere la pubblicazione? Sì, certo, ci sarà, tra gli editori più testardi e attenti alla costruzione del catalogo, una quota di pubblicazioni “a perdere” o che prevedono un rischio maggiore, ma la gran parte delle scelte sarà orientata dalla presenza di un finanziamento, e del finanziamento più consistente.
Tutte le discussioni, in rete e fuori, sull’assenza di una tradizione di University Press in Italia e sull’inesistenza di qualsiasi forma seria di peer review lasciano il tempo che trovano, di fronte a tale scenario che prefigura un solo risultato: la riduzione ai minimi termini di alcune iniziative editoriali e la limitazione della scelta a quelle arricchite da una dote generosa. Questo è lo scenario che mi ha fatto assumere la decisione di interrompere l’attività della Meltemi, non volendo trasformarla in una casa editrice “universitaria” all’italiana, una casa editrice costretta a pubblicare solo i libri finanziati.
Già immagino chi, arrivato fin qui, stia fremendo per non aver letto la parola digitale. Eccoci.
Le pubblicazioni digitali, nelle varie forme in cui sono possibili, dal solo testo, ai pdf agli ebook alle applicazioni (a pagamento e non), sarebbero il naturale sbocco per le ricerche di cui sopra. Ne sono convinta, tanto più per le distorsioni prodotte da un sistema per cui i lettori di tali opere sono di frequente gli stessi produttori e si trovano, quindi, a pagare tre volte: come cittadini, finanziando il luogo in cui quei lavori vengono prodotti, l’università; come ricercatori-autori che, per dare sbocco editoriale al proprio lavoro, devono far pagare ulteriormente l’istituzione in cui operano; come lettori, infine, che acquistano quelle stesse opere, costituendone il pubblico “naturale”.
Ma chiunque abbia a che fare con l’università sa bene che le pubblicazioni digitali non hanno valore a fini concorsuali: semplicemente, non sono contemplate. E infatti, nell’ultimo decennio, sono nate alcune “University Press” su iniziativa di Atenei, di editori o miste che prevedono la pubblicazione on line e la stampa on demand di un numero minimo di copie: tutti i casi di questo tipo che conosco prevedono comunque un pagamento per la pubblicazione, anche per la sola edizione digitale; nessuno dei casi che conosco è dotato di un sistema trasparente di valutazione delle proposte e scelta delle pubblicazioni [edit: felice se riceverò smentite documentate].
Qualcosa, però, inizia a muoversi anche in Italia e, per esempio, si diffondono le riviste scientifiche che usano software open source, sono disponibili secondo canoni open access e adottano forme di valutazione e di peer review riconosciute internazionalmente (un esempio eccellente in Italia è la piattaforma Sirio dell’Università di Torino). Così come si diffondono iniziative di condivisione delle conoscenze aperte e libere, per fare un solo esempio: Oilproject: quasi sempre si tratta di iniziative nate su base volontaria e spesso la loro esistenza condivide la condizione di precarietà permanente di analoghe attività culturali. Chi non vuole pubblicare solo per avere un titolo da spendere per il prossimo concorso, insomma, di strade ne ha in abbondanza e in molti già le percorrono.
13 commenti da “Editoria a pagamento e… il mio outing”
“Riviste scientifiche… non si pubblicano senza un finanziamento su cui contare in partenza”.
Noi abbiamo fatto una rivista scientifica senza alcun finanziamento su cui contare, in questo modo: stampando poche copie cartacee per chi le desidera, con il print on demand, e mettendo il testo a disposizione gratuita on-line ed in formato ebook (pdf ed epub). Con questo sistema riusciamo a farci leggere da molte persone pubblicando quasi a costo zero (per le poche spese necessarie ci autotassiamo). La nostra stessa casa editrice pubblica altre riviste con sistema tradizionale: le spese di stampa vengono sostenute generosamente da una certa fondazione bancaria, che acquista la maggior parte delle copie e le regala; le riviste vengono lette da poche persone, per lo più poco interessate.
Io sono una traduttrice di saggistica e non considero affatto normale adoperarmi per finanziare la pubblicazione. Trovo anzi triste che si contribuisca a diffondere l’idea che il traduttore deve rimetterci di tasca propria (tariffe sempre più misere) e/o procacciare contributi a destra e a manca. Vero però che la saggistica che traduco io è destinata al grande pubblico, e per quanto ne so le copie che vende non si limitano affatto al centinaio. Se qui si tratta di saggistica ultraspecialistica, comunque, sarebbe bene chiarirlo un po’ meglio.
Buonasera. Vorrei intervenire nella discussione per riportare alcune considerazioni e fare alcune domande.
Vi siete mai chiesti cosa spinge migliaia di persone – ogni anno in Italia escono 60.000 nuovi libri e di questi almeno 50.000 sono legati alla eap, all’editoria sostenuta e ad altre forme di editoria e finanziata da altri – a scrivere e poi desiderare di pubblicare un libro?
Avete mai provato a cercare di pubblicare un libro con le 40 case editrici più importanti d’Italia che muovono l’80% dei libri presenti in una libreria?
Le risposte le conoscete.
Il punto allora è questo. Grazie ad internet e una migliore informazione tutti oggi conoscono il mondo dell’editoria. Inoltre ricevono a casa note, contratti e quant’altro da parte di editori e possono informarsi, chiedere lumi, approfondire e scegliere di editare o di rimettere il manoscritto nel cassetto. Editare diventa quindi una scelta consapevole (esclusi gli incapaci di intendere e volere).
La lista è un ottimo luogo di analisi e mi dispiace che qualcuno si sia offeso ma rappresenta una realtà. Lista per altra molto scarna visto che mancano a mio parere altre decine di editori (alcuni molto famosi) che pubblicano saggistica a pagamento. Forse manca ancora coraggio ma capisco Linda Rando. Prendersela con i colossi risulterebbe ancora più pericoloso.
E vengo al punto.
La questione è annosa e la domanda è una sola: l’editore deve essere uomo di cultura tout court o uomo di finanza ed economia?
Purtroppo in Italia non è quasi possibile far conciliare le cose e avere uomini di mezzavia. Gli esempi sono molti. Tutti i grandi editori sono falliti. Casi come Einaudi, Rizzoli, Mondadori appartengono alla storia del libro in Italia. Eppure da una struttura come l’Einaudi è passata la cultura italiana. Ma è fallita comunque.
Allora in definitiva unendo i punti qual è il reale problema italiano? Le risposte sono molte.
Abbiamo troppi scrittori e pochi lettori; abbiamo pochissimi librai e molti commessi; abbiamo pochi critici letterari e molti giornalisti amici degli amici (io recensisco il tuo e tu il mio); abbiamo pochissimi editori liberi e molti legati alla borsa a doppia mandata; abbiamo una televisione che non parla di libri e non educa alla lettura; abbiamo l’idea che se un tizio qualsiasi passa in televisione poi venderà un libro; abbiamo troppa ombelicalità; abbiamo troppe gelosie che arrivano all’odio (seguite qualche blog dove si parla di Fabio Volo scrittore).
Insomma la domanda che vi faccio è questa:
ottima la pubblicazione della lista, ma forse pochi ricordano che Camilleri ha iniziato a pubblicare a pagamento con Lalli di Poggibonsi (e non solo) e oggi è famoso in tutto il mondo; quindi credo che l’eap sia un falso problema.
Il problema reale e concreto è nel sistema libro che coinvolge editori, scrittori, librai, giornalisti, manager e lettori.
Cosa ne pensate?
Quoto Andrea: “Il problema reale e concreto è nel sistema libro che coinvolge editori, scrittori, librai, giornalisti, manager e lettori.”
Detto così potrebbe sembrar voler dire tutto e niente, ma è sempre buona cosa avere un orizzonte complessivo davanti che sia ampio e con tutte le presenze ben illuminate in modo da poter distinguere anche le ombre.
Nella fattispecie, poi, non credo che nemmeno le grandi aziende editoriali siano esenti da forme di sovvenzione, anzi; ho l’impressione, semmai, che se dovessero campare solo di libri, sarebbero già fallite da un pezzo…
Stabilire le giuste proporzioni e saper distinguere, piuttosto; scorrendo la lista vedo Armando e Albatros sullo stesso piano… dico, siamo impazziti?
@antonio vigilante Mi pare che siamo d’accordo. Le riviste sono un’attività no profit, con il lavoro volontario della redazione e a volte con autotassazione per parte delle spese: questa per me è una forma di finanziamento.
@Luisa Ho parlato esplicitamente dell’editoria di ricerca; la definizione “ultraspecialistica” mi spaventa un po’ poiché sottende la possibilità che, interessando una minoranza, tanto varrebbe farne a meno. Per esempio, oggi a lezione ho fatto l’esempio di un libro di Judith Butler (una filosofa piuttosto nota, ormai anche in Italia) che ha venduto, nei primi tre anni dopo l’uscita, poco più di mille copie. Con quel libro la Meltemi non è rientrata dei costi sostenuti per produrlo.
Detto questo, sono d’accordo sul fatto che non debbano essere i traduttori a farsi carico (accettando compensi ridicoli) della difficoltà nel far quadrare i conti, soprattutto quando parliamo di libri che hanno diverse attese di vendita.
@Andrea Sono talmente d’accordo che il problema sia di sistema che ho deciso di uscire dalla scena come competitor e provare a svolgere un altro ruolo, attraverso il lavoro all’università e fuori.
@gigi capastìna Infatti: conoscere e discernere, perché è vero che all’interno di quella lista ci sono differenze, ma è anche vero che in qualche misura tutti hanno quote di responsabilità nel mantenimento dello status quo.
Ciao a tutti, mi inserisco nella discussione, provando a esporre il mio punto di vista.
Pubblicare a pagamento pone un problema di base. Se è vero che, se si hanno a disposizione i quattrini, non c’è niente di male a spenderli per essere pubblicati, poichè si crede nella propria opera, è altrettanto vero che c’è il rischio che i quattrini siano proprio l’unica cosa che rende il tale libro pubblicabile. Provo a spiegarmi meglio. Se non riesco a laurearmi in nessun modo, posso fare tre cose: lasciar perdere, oppure darci sotto sinché sono sicuro di aver fatto tutto il possibile e anche di più, oppure, infine, se ho i quattrini “comprarmi” la laurea in qualche università a pagamento.
Ecco, ribaltiamo il discorso all’editolria. I grandi o medi editori fanno parte di una specie di mafia, sono tutti baroni che affossano la cultura in nome del bieco commercio, e di letteratura non capiscono (quasi) niente? Allora pago e gliela faccio vedere io!
Poi, si ha voglia di dire che Camilleri, o Svevo, o mi sembra Kafka hanno cominciato pagando per essere pubblicati: è un modo per alimentare false speranze di chi non legge nemmeno un rigo scritto da altri e poi si lancia in romanzi che non valgono la carta nella quale sono stampati.
Troppo duro? forse. Però è un argomento che mi sta molto a cuore, questo dell’editoria a pagamento, perché a mio avviso è in buona parte responsabile, attraverso il proliferare di autori di qualità infima, di un’invasione di opere negli scaffali che poi rende veramente difficile emergere a chi invece ha talento, fa credere a chiunque che può diventare uno scrittore e quindi rende anche più difficile il rapporto con le case editrici “normali”.
Infine, due parole sulla chiarezza. Se un editore pubblica a pagamento, che lo dica forte e chiaro. tanto, chi ha intenzione di pagare per “diventare scrittore” pagherà ugualmente; gli altri non gli faranno perdere tempo.
La Lipperini ha pubblicato la lista degli editori a pagamento.
Rigiro delle domande e vi chiedo: perché non inseriamo anche ilmiolibro.it nella lista degli editori a pagamento?
E’ vero o non è vero che Lipperini lavora per la repubblica, dunque ilmiolibro.it?
E’ vero o non è vero che il miolibro.it propone pubblicazioni (con distribuzione presso le librerie feltrinelli) a pagamento?
E’ vero o non è vero che tra tutti gli editori a pagamento ilmiolibro.it non è inserito in questi elenchi?
E’ vero o non è vero che ilmiolibro.it ha solo vantaggi da questi elenchi?
Non so se è così, ma dopo tante battaglie sul conflitto di interessi è possibile che questo sia un vero e proprio conflitto di interessi?
E’ possibile che questa lista crei dei danni a degli editori serissimi e dei vantaggi (anche indiretti e o involontari) al gruppo editoriale l’espresso-repubblica per il quale lavora la lipperini?
Questo commendo nasce da una valutazione semplice: se eliminiamo queste case editrici che chiedono soldi per pubblicare, cosa accadrà?
Salveremo la cultura italiana?
Non credo, io credo che continueranno a pubblicare a pagamento inviando i libri sul sito de ilmiolibro. L’obiettivo sta per essere raggiunto (so di editori che chiudono, di licenziamenti, di un momento davvero difficile).
Esistono delle missioni, delle battaglie da fare: per esempio la lotta alla mafia, alla corruzione, alla fame nel mondo, tante battaglie che vale la penna di combattere. Ma questa battaglia, questa contro i piccoli editori di nicchia sta monopolizzando il mercato in una sola direzione.
Dentro questa lista ci sono persone perbene, oneste che lavorano, serie, impeccabili. Io temo i paesi che vivono sulle liste di proscrizioni, oggi tocca a me, domani tocca a te. E’ pericolosissima questa finta battaglia tra il bene e il male.
Questi tribunali sommari mi fanno venire i brividi, ma vi rendete conto di quello che state facendo?
Perché?
L’Italia era il paese degli incantamenti e dell’educazione, della civiltà e dell’equilibrio. State rendendo volgare il paese del galateo, incivile il paese della civiltà.
Ogni lista, ogni elenco di proscrizione toglie anni di evoluzione e rende tribale e violenta una civiltà.
Caro Giò,
il tuo commento parte da un equivoco: la lista che è stata pubblicata riguarda editori che dichiarano di non essere a pagamento (a volte lo negano pubblicamente ed energicamente) e invece lo sono. Ilmiolibro.it è un’operazione commerciale che dell’editoria utilizza i lati perversi e peggiori, speculando sul desiderio narcisistico di persone che ambiscono alla pubblicazione, però il meccanismo è (abbastanza) chiaro: tu paghi e io stampo.
Come più volte abbiamo detto, il punto non è stilare una lista dei cattivi, ma fare chiarezza e rendere trasparenti pratiche che non lo sono. Come ho scritto, io stessa ho fatto ricorso a finanziamenti e contributi per pubblicare i libri della Meltemi, non l’ho nascosto né negato, però: qui sta una differenza importante.
Quanto al benaltrismo, in nome del quale ci sarebbero sempre istanze più importanti per le quali impegnarsi, penso che se ciascuno di noi iniziasse a rendere migliori i luoghi dove vive e lavora, sarebbe un modo più efficace per produrre cambiamenti duraturi.
Parto da un presupposto: mi piace la tua risposta, è vero il benaltrismo porta danni, ma dimmi le liste di proscrizione non ti fanno paura?
Ogni volta che appare una lista il mantello della democrazia subisce uno strappo.
E’ un valore quello del confronto civile che non ci deve sfuggire, a parte questo: è vero o non è vero che ilmiolibro si pone sempre più come un editore a pagamento (senza allusioni, ci mancherebbe!)?
E ora vado al dunque di una discussione pericolosissima (mi riferisco alle liste medievali) è possibile che ci siano altri 50 editori a pagamento non inseriti e che ci speculano sul fatto di non essere presenti perché la lista non è aggiornata?
E’ possibile che tra questi editori inseriti nelle miserabili liste ci siano persone perbene che adesso non sono più a pagamento?
Come vedi la mia riflessione è più articolata: viviamo in democrazia, ma la libertà d’espressione non deve essere usata come una clava per ferire la società civile.
L’obiettivo di queste liste non è la proscrizione, lo ripeto, ma rendere trasparenti comportamenti che non lo sono. Infatti, è ora presente, nel sito che ha iniziato (nel 2008) questo lavoro di raccolta e verifica delle informazioni, anche la lista degli editori “free”: http://www.writersdream.org/forum/index.php?app=forums&module=extras§ion=topicslist&f=16
Se vuoi contribuire ad aggiornarla e/o modificarla, non hai che da scrivere a chi gestisce il sito e avanzare le tue proposte, come già altri hanno fatto, condividendo le informazioni.
Io parteciperò a questa iniziativa quando ammetterai che ilmiolibro.it è un editore a pagamento (hai visto il concorso?)
Il concorso suggerisce di pubblicare con ilmiolibro, il vincitore ha come premio la pubblicazione con feltrinelli.
Partecipano 50 mila (1 vince) è più facile fare 6 al superenalotto!
Questo così? Servizio tipografico?
Non ditemi che è un servizio alal cultura.
I miei amici lo sanno: non sono qui per difendere nessuno, ma amo la chiarezza…
Per non parlare del servizio (a pagamento) presso il circuito feltrinelli. Anche qui: cos’è stampa a richiesta o editoria che chiede contributi per funzionare?
Questo per mettere qualche puntino e per togliermi qualche sassolino (fa anche rima :-)
Il mio giudizio su ilmiolibro.it è molto peggiore del tuo (e lo esprimo, da tempo, in lungo e in largo, forse ti sei perso qualcosa mentre mettevi puntini), poiché penso non si tratti neppure di un editore a pagamento, ma di un service editoriale, uno stampatore o come preferisci chiamarlo.
L’operazione, bieca, che sta dietro quell’iniziativa è sintetizzata dal claim che hanno scelto: “L’hai scritto? Va pubblicato!”. Nessuna selezione, nessun lavoro di redazione sul testo, alcuna cura editoriale: esattamente ciò che dovrebbe caratterizzare il lavoro di un editore.
E però, ripeto, il lavoro di svelamento in cui con altri sono impegnata non può limitarsi a individuare UN nemico, ma a ottenere un esteso livello di trasparenza nelle scelte e procedure di pubblicazione da parte di TUTTI gli editori.
Dopo di che, se qualcuno vuole pagare per farsi pubblicare il romanzo nel cassetto non lo potremo impedire, ma sarà chiaro come ci è arrivato; e sarà chiaro, altresì, come riesce a “stare sul mercato” l’editore che l’ha pubblicato.
Sei netta e condivido le tue parole ma l’assurdo sai qual è? Che si è creato un clima negativo attorno agli editori (chiamiamoli piccoli) e ciò ha inevitabilmente avvantaggiato i grossi gruppi tipo l’espresso (ilmiolibro)
Un articolo apparso a firma di Tanzi sul Fatto quotidiano dice:
Ilmiolibro.it è un portale del gruppo l’Espresso dove puoi fare di tutto: stampare il tuo romanzo (più o meno 7 euro a
copia) e metterlo in vendita attraverso il sito. Grazie a un accordo con Feltrinelli puoi perfino arrivare in libreria con il
print on demand (stampa su richiesta): il sito ha oltre 140 mila utenti registrati, 16 mila opere pubblicate. I diritti sono
tuoi: se vendi ci guadagni tu.
L’ANNO scorso ilmiolibro.it ha organizzato un concorso: hanno partecipato 2.600 romanzi, selezionati dalla Scuola
Holden. Ha vinto Miradar di Ilaria Mavilla che uscirà quest’anno da Feltrinelli. Non per fare il solito Bertoncelli
avvelenato da Guccini, ma dalle prime venti pagine Miradar non sembra proprio imperdibile. Ed è una cifra costante nel
mare di libri o aspiranti tali che circola in Internet: capolavori pochi.
Fine citazione: inizio riflessione.
L’editoria è in crisi, piccole case editrici licenziano. Tipografie chiudono. Migliaia di realtà si perdono (e non ci sarà cassa integrazione o pubblicità in televisione).
In Italia gli unici ad andare alla grande a promettere distribuzione, premi letterari (pubblicazioni) ecc sono quelli de il mio libro.
Io rifletto su questo, il resto mi pare fumo.
Continuiamo pure ad escludere ilmiolibro da queste liste.
Accomodatevi. Tanto ormai gli editori piccoli sono quasi scomparsi.
Ci abbracceremo alal fine: la battaglia sarà vinta, ma chi vincerà?