Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Alfalibro – supplemento speciale al n. 19 di alfabeta2, maggio 2012 (realizzato in collaborazione con Generazione TQ) con il titolo: Quanto costa il libro? Come si forma il prezzo, su carta e in digitale [update: ora il post è disponibile anche sul sito di alfabeta2].
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Tra le numerose analisi che pongono a confronto carta e digitale nella produzione libraria, è possibile tentarne una a partire dai conti economici che reggono i due sistemi: consolidato da una lunga esperienza il primo, ancora oggetto di timide sperimentazioni il secondo, soprattutto in Italia.
Prendiamo ad esempio i costi di produzione di un libro di carta con un prezzo di copertina di 15 euro, del quale si sia effettuata una tiratura di 3.000 copie e del quale sia rientrato circa il 25% di copie in resa. L’esempio si discosta un po’ dalle medie soprattutto per comodità di calcolo, ma è possibile immaginare che siano molte le opere pubblicate a trovarsi nel caso illustrato1.
Senza entrare nel merito di ogni singola voce, i dati significativi sono:
- i costi di raggiungimento dei punti vendita (distribuzione, promozione, librerie, gestione delle rese) assorbono circa il 62% del totale;
- i costi fissi, sommati ai costi redazionali (che riguardano, in buona misura, il costo del lavoro e la fiscalità) rappresentano dal 15 al 28%;
- i diritti d’autore si attestano intorno al 10%;
- i costi di carta e stampa incidono per circa il 7%.
La somma di tali percentuali ci porta a un totale che oscilla tra l’84 e il 107%, cui sarebbe corretto aggiungere i costi derivanti dal ricorso al credito bancario (un 4% obbligato dai tempi estremamente lunghi di rientro dei costi di produzione)2 e gli eventuali costi di traduzione (un altro 8%).
Si arriva così al 96-119%. Ne consegue che il pareggio dei conti si raggiunge solo se:
- non si traduce o non si pagano le traduzioni;
- si riducono all’osso costi redazionali e fissi, esternalizzando e precarizzando funzioni;
- si può fare a meno di ricorrere al credito bancario.
Tre condizioni che, in tutta evidenza, non possono realizzarsi contestualmente per imprese editoriali attive, con una produzione dignitosa e che vivano delle risorse sviluppate dalla propria attività.
Le case editrici operano, quindi, in un regime di permanente incertezza, con margini pressoché inesistenti di guadagno e l’intera produzione (anche nei migliori dei casi) viene gioco forza finalizzata alla pubblicazione del bestseller in grado di abbattere i costi unitari di produzione e costituire il margine per finanziare il proseguimento dell’attività. L’inseguimento del best seller riguarda tutta la filiera: promuovere e movimentare grandi quantità di pochi titoli più venduti è di gran lunga più remunerativo che gestire informazioni e aggiornamento di un ampio catalogo di titoli poco richiesti. Un fenomeno che, con scale diverse, attraversa tanto il grande gruppo editoriale, che punta alle centinaia di migliaia di copie, quanto il piccolo editore, che si accontenta di poche migliaia: il processo attraverso il quale si mira alla costruzione del best seller è sempre più orientato da elementi estranei alla qualità dei singoli titoli (per esempio, la notorietà dell’autore in un campo qualsiasi, meglio se nello show business o nella politica3).
La ricetta per l’individuazione del best seller, però, è quanto mai oscura, e gli unici che vi si possono (e vogliono) applicare sistematicamente traendone vantaggio sono, ovviamente, i più forti sul mercato. Quattro o cinque grandi gruppi che in Italia (grazie alla latitanza di serie politiche antitrust in grado di vietare, o almeno limitare, i processi di concentrazione) controllano tutti gli snodi verticali della filiera e i maggiori marchi editoriali: case editrici, distribuzione, promozione, catene librarie e negozi on line, quotidiani e periodici, canali e produzioni radio, televisivi e cinematografici, su carta e on line.
I best seller, vale la pena ricordarlo, sono acquistati per lo più da coloro che comprano solo un libro all’anno, esclusi i testi scolastici: condurli all’acquisto, attraverso passaggi televisivi e massicce campagne pubblicitarie, significa assicurarsi la fetta più grossa del mercato: circa il 19% della popolazione maggiore di 14 anni4, una fetta assai più remunerativa di quella rappresentata dai lettori forti che cercano altri libri, sempre più spesso senza trovarli.
L’effetto più evidente e noto di tale organizzazione della filiera è l’iperproduzione, spesso segnata da una proposta standardizzata dove i cloni occupano lo spazio dell’attenzione e degli scaffali, penalizzando le pubblicazioni originali (per innovazione stilistica, argomenti trattati, enclave linguistiche di provenienza: in una parola, la bibliodiversità). Altro effetto, non meno perverso, è il ricorso sempre maggiore a “contributi alla pubblicazione” a monte del processo di produzione che, se in pochi casi è più che legittimo (per esempio, attraverso gli aiuti alla traduzione), in molti casi si configura, piuttosto, come editoria a pagamento (acquisto copie da parte di autori o committenti e simili), con relativo condizionamento e scadimento delle procedure selettive dei testi da pubblicare5.
Se rapportiamo i costi visti fin qui alla produzione di quello stesso libro in digitale, dovremo anzitutto ipotizzare un prezzo di copertina assai più basso, diciamo 5 euro, poiché la percezione del valore delle opere digitali è di gran lunga inferiore a quella del corrispettivo cartaceo6.
Così facendo potremo però attenderci un volume di vendite almeno pari alla tiratura effettuata per l’edizione su carta, 3.000 copie, purché siamo disposti a rispettare altre tre condizioni decisive:
- l’assenza di sistemi di protezione che impediscano la facile gestione degli ebook;
- un’adeguata conduzione dell’e-commerce;
- una maggiore accuratezza nella produzione dei file digitali.
Tre condizioni che rappresenterebbero la più efficace dissuasione delle varie forme di circolazione illegale, come dimostrano analoghi modelli ormai affermati nel mercato musicale. In questo caso, gli elementi su cui soffermarsi sono:
- i costi di raggiungimento dei punti vendita (distribuzione, promozione, librerie on line) assorbono il 36-50% del totale;
- i costi fissi e redazionali, con il 14-25%, variano minimamente rispetto alla carta;
- la percentuale riservata ai diritti d’autore si colloca in media al 20%, più o meno raddoppiando;
- i costi di carta e stampa scompaiono (impaginazione e produzione del file digitale sono inclusi nei costi redazionali).
Ci si avvicina al pareggio dei costi con assai maggiore probabilità (70-95%), pur prevedendo traduzioni, elevati costi redazionali e fissi, buona distribuzione e promozione (anche i file vanno “accompagnati” presso le librerie on line e fatti conoscere ai lettori e qui si immagina che tale compito non venga delegato agli autori), ricorrendo minimamente al credito bancario.
Sembrerebbe che la pubblicazione digitale costituisca una strada per far tornare i conti assai più facilmente, e soprattutto per ottenere una più equa distribuzione dei costi e dei ricavi, con uno spostamento netto di risorse dalla vendita/distribuzione alla creazione/produzione. Quest’ultimo punto appare estremamente interessante; ci tornerò presto, cercando di dimostrare tale spostamento, per esempio guardando ai migliori casi di self-publishing.
Ma quali sono i problemi?
Il primo è rappresentato dalla necessità di vendere molte più copie per raggiungere i valori che oggi può consentire solo la carta, mantenendo in piedi organizzazioni modellate sui volumi del mercato cartaceo. Negli esempi citati, per raggiungere il fatturato realizzato dal volume di carta, 33.750 euro (2.250 cp x 15 euro), si dovranno vendere un numero almeno doppio di copie digitali (6.700 x 5 = 33.500). Non è detto che sia possibile, e gli effetti in comparti come l’informazione si mostrano già nella loro asprezza, anche in Paesi dove il digital divide è assai meno acuto che in Italia7 e un mercato per gli ebook si è già manifestato in modo maturo.
Il secondo è costituito dal progressivo imporsi, nel mercato dell’editoria digitale, di player globali con una forza nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei maggiori gruppi editoriali nazionali: Amazon, Google, Apple non esprimono solo un dominio incontrastato delle tecnologie, inventano e abilitano a usi sempre più efficaci della diffusione dei contenuti (condivisione, partecipazione, co-creazione). Vederli solo come nemici, illudendosi di fermarli a colpi di vertenze legali (o con leggi, come la recente Levi, dai risultati dubbi e contraddittori8), potrà al massimo rinviare di qualche anno un processo inarrestabile, regalando loro un vantaggio che sarà arduo recuperare.
Il terzo riguarda l’organizzazione del lavoro, con mestieri che verranno progressivamente ridimensionati (tipografi, logistica) e altri che dovranno mutare. Per esempio, i redattori dovranno imparare a curare i testi nati nel e destinati al digitale, non pensare più solo alla pagina, ma alle diverse modalità di presentazione e lettura dei testi digitali; dovremo abituarci a considerare “lettura” contenuti multiformi non interpretati dai termini libro o ebook (piuttosto che ragionare per formati, sarebbe fecondo ragionare per ambienti nei quali vivono i contenuti: dall’analogico al digitale, non dal libro di carta all’ebook). Forse, come dobbiamo imparare altre lingue per comprendere forme diverse del pensiero, per esprimerci più efficacemente negli ambienti digitali dovremo studiare un po’ di codice. E soprattutto, editori, redattori e addetti ai lavori dovranno iniziare a leggere in digitale per comprendere bisogni e critiche dei lettori.
Questioni enormi, che però vale la pena di esplorare, in particolare per tutte le produzioni impossibili sulla carta a causa del numero ridotto di lettori che vengono messi in condizione di desiderarli: dal testo scientifico al volume di poesia, dalla riedizione di un fuori catalogo alla traduzione da una lingua poco diffusa. In tutti questi casi la pubblicazione digitale può rappresentare un’alternativa e può consentire di pubblicare opere che oggi non arrivano in libreria, favorendo il manifestarsi di un mercato editoriale digitale maturo in grado di offrire una parziale compensazione alle difficoltà del cartaceo. Più in generale, può incrociare il cambiamento che il digitale sta imprimendo alle abitudini di lettura e di scrittura, consentendo prove e sperimentazioni, reinventando il significato della parola libro9.
Può essere questa anche una strada per aumentare il numero dei lettori? Forse sì, poiché oggi sappiamo che si può estendere una platea (è avvenuto per la musica e per i video) proponendo una scelta ampia, in grado di stimolare lo sviluppo di interessi diversi, di avvicinarsi a tali gusti e di rendere progressivamente più esigenti i lettori.
Si tratta di un lavoro di medio e lungo termine, che non produrrà risultati immediati, e che si muove in una direzione opposta a quella di gran parte dell’attuale mercato dei libri10. Dovremo lavorare per facilitare la lettura in termini di moltiplicazione delle possibilità di accesso, non di semplificazione dei contenuti. Dovremo cercare di evitare che l’industria editoriale digitale, sommando ritardi e ignoranza, calchi i peggiori aspetti di quella tradizionale e sappia investire sulla qualità e sulla innovazione. Dovremo ripensare la funzione editoriale: restituendo valore ai processi di selezione dei contenuti, rendendo questi ultimi sociali e condivisi, tornando a studiare gli ambienti nei quali essi si producono.
- La media delle tirature per titolo, nel 2010, è stata di circa 3.340 copie e il prezzo medio di 20,5 euro; cfr. Statistiche sulla produzione e la lettura dei libri in Italia, Istat, 21 maggio 2012. [↩]
- Per conoscere i dati effettivi di vendita di un titolo occorre attendere fino a un anno, per cui si producono fatturazioni “virtuali” che sovente vengono smentite da corposi rientri di rese. In altre parole, si avvia la finanziarizzazione dei processi di produzione. L’immissione sul mercato di un gran numero di titoli, soprattutto se gonfiati nel numero di copie distribuite (oltre a occupare il massimo spazio disponibile in libreria), consente di fatturare e di accedere al credito, pur sapendo che le rese obbligheranno, in un circolo vizioso e senza fine, a produrre e distribuire sempre di più per farvi fronte. Anche le giacenze di magazzino, pur se in larga misura destinate al macero, vengono mantenute per determinare una voce attiva di bilancio, sulla base della quale ottenere bilanci apparentemente più sani e quindi credito dalle banche. [↩]
- Sempre interessanti, in proposito, le osservazioni di Andrew Wylie, fondatore e presidente della Wylie Agency, per esempio in questa recente intervista. [↩]
- Sulla base dell’indagine L’Italia dei libri realizzata da Nielsen per conto del Centro per il libro e la lettura, gli acquirenti di almeno un libro nel 2011 sono stati il 44% della popolazione >14 anni; coloro che ne hanno acquistati almeno 3 equivalgono al 25%. [↩]
- In tutti i casi un fenomeno da denunciare; nella letteratura scientifica in particolare, poiché penalizza la pubblicazione delle ricerche meritevoli, la possibilità di carriera accademica per i migliori studiosi, contribuendo alla riuscita dei ricercatori più ricchi o meglio “sostenuti”: una perversione che ha riflessi diretti sulla qualità dell’insegnamento universitario. [↩]
- Non intendo soffermarmi qui sul dibattito in merito alla scarsa percezione del valore delle opere nella loro versione digitale; mi pare però opportuno sottolineare che andrebbe preso atto, una volta per tutte, di come il digitale muti completamente i rapporti e come la risposta non possa essere quella di ridurre i prezzi delle versioni digitali di appena un terzo, attirandosi le aspre critiche dei lettori. [↩]
- L’analfabetismo digitale, sommato alle arretratezze culturali è fenomeno sul quale è urgente investire risorse in ogni ambito (istruzione, ricerca, imprese, PA): i ritardi sono di natura politica assai prima che tecnica e non andrebbero sottovalutati i continui tentativi di legiferare e disciplinare le libertà in rete, a partire dalle norme sul diritto d’autore. [↩]
- Non penso sia in sé sbagliata l’idea di stabilire per legge un tetto agli sconti sui libri: penso che sia anacronistico farlo ora. [↩]
- Trovo acutissime alcune recenti analisi di Gino Roncaglia al riguardo, in sintesi: la lettura sta cambiando e non possiamo limitarci a misurare lettori e acquirenti di libri per conoscere chi e cosa legge; il numero limitato di ebook disponibili e facilmente accessibili ostacola lettori che si orientano su diversi contenuti; tarda a manifestarsi un mercato editoriale digitale maturo che possa rappresentare una parziale compensazione alle difficoltà del cartaceo. L’articolo, pubblicato originariamente su Nazione indiana, è ora disponibile anche in ebook, con integrazioni. [↩]
- Ma qualche passo avanti, anche se molto timido, si sta compiendo: per esempio, a Editech 2012, dove finalmente si è iniziato a riflettere in altro modo sul digitale. [↩]
26 commenti da “Quanto costa fare i libri, di carta e di bit?”
Utile e interessante analisi, che mette in luce tutti gli aspetti economici della produzione libraria cartacea e non. Complimenti!
Analisi lucida, coerente e condivisibilissima.
NOn avrei saputo esprimermi meglio, anzi, direi che sfrutterò molto questo articolo.
Grazie a entrambi. È un tentativo, forse un po’ noioso, di parlare di pro e contro il digitale mettendo qualche numero sul tavolo.
Ottimo articolo, davvero. Induce però a pensare che la media delle copie vendute per un libro su carta, o perlomeno il caso di maggioranza relativa, sia o 2.250 copie (come metti quando fai i conti) o 3.000 (come suggerisci più in alto).
Io direi che il 40% dei libri pubblicati in Italia venda tra 0 e 10 copie e che un altro 40% venda comunque un massimo di 6-700 copie.
Consideriamo che in generale il numero di copie della prima edizione è tra 300 e 1.000 copie e che in genere i libri in Italia sono ristampati con enorme difficoltà (un titolo nuovo ha più probabilità di guadagnare). Tu che numeri hai?
Ciao Leo,
3.340 è la tiratura media rilevata dall’Istat per il 2010 e l’ipotesi di venduto è data a 2.250, con un 25% fisiologico attribuito alle rese. So anche io che questi numeri valgono per realtà editoriali medio-grandi e che, soprattutto nella saggistica, i numeri sono quelli che fai tu, più o meno.
Ho volutamente tenuto alto il numero relativo al venduto dell’edizione cartacea presa a esempio poiché è evidente che più quel numero si abbassa (giacché non può alzarsi, almeno in media), più emerge la convenienza del digitale.
Il problema delle tirature sotto le 1.000 copie (e vendite proporzionalmente più basse), nella carta come nel digitale (anche se qui in misura minore), è rappresentato dalla grande difficoltà di ammortizzare costi fissi e redazionali di una struttura dignitosa (nella organizzazione e retribuzione del lavoro, prima di ogni altra cosa).
Ciao Luisa,
rispondo qui per aggirare il limite dei 140 caratteri (https://twitter.com/luisacapelli/status/218407485957083136). La tua analisi è molto interessante, preziosa per alimentare un dibattito spesso privo di punti fermi. Degno di nota il fatto che hai individuato anche nel digitale dei costi di raggiungimento del punto vendita, che anche se può sembrare strano sono sempre presenti. Condividiamo pienamente le tue conclusioni, sulla necessità di un ripensamento e una nuova valorizzazione della funzione editoriale e siamo sempre pronti a tentare sperimentazioni in questo senso. Determinante è che gli editori in primis sperimentino la lettura in digitale (mi ricordo che lessi il mio primo ePub su iPhone :) ) ma anche che ci si sforzi, a monte, di immaginare (mi piace questo termine per la creatività che suggerisce) l’evoluzione dell’editoria secondo i paradigmi della scalabilità: solo così sarà possibile sviluppare modelli economici nuovi e attuali. Che dire, ci proviamo e appunto sperimentiamo: è l’unico modo per andare avanti e imparare, ed è fondamentale farlo ora in un regime di mercato ancora ridotto. Da maggiore esperienza e da un mercato allargato (anche grazie a Amazon, Google, Apple ecc.) sarà possibile trarre conclusioni univoche e allora forse vedremo molta meno carta a fronte di store, ebook, ereader e in generale una nuova editoria che ora appena riusciamo a intuire. Vedremo :)
Caro Fabio,
grazie per la risposta e mi fa molto piacere trovare una convergenza di opinioni su quanto ho scritto. Penso davvero che iniziare a introdurre nella discussione elementi di maggiore concretezza (processi di lavorazione e organizzazione del lavoro anziché nomi di formati, per esempio) possa essere utile a sperimentare la scalabilità che l’editoria oggi consente.
Certo, si tratterà di un impegno dai tempi lunghi, ma ho l’impressione ci siano sempre più persone, tra gli addetti ai lavori, convinte che non sia più possibile rinviare ;)
L’articolo è sicuramente interessante, ma non mi pare consideri un aspetto molto importante se si guarda la differenza tra ebook e libro cartaceo. L’ebook è considerato un prodotto digitale ai fini fiscali e quindi soggetto a un’iva al 21% a differenza della versione cartacea che è del 4%. Questo costringe le case editrici a tenere alto il prezzo dell’ebook o, ancora una volta a ridurre i costi di produzione di questo (o eventuali traduzioni, o correzioni…), insomma nuovamente a rimetterci è la qualità del prodotto.
Purtroppo fin a quando non si supererà questo problema, l’ebook sarà comunque un oggetto costoso per chi lo produce e per chi lo acquista…
Cara Tiziana,
ti ringrazio per lo stimolo ad aggiungere alcune considerazioni a proposito dell’Iva.
L’Iva con l’aliquota ridotta al 4% si applica a tutti i prodotti editoriali su carta (escluse le pubblicazioni pornografiche e poche altre fattispecie), oltre che all’acquisto della carta e dei servizi necessari alla loro produzione, secondo quando stabilito dal Dpr 633/1972 (decreto del Presidente della Repubblica che istituì l’Imposta sul valore Aggiunto).
Al tempo, gli editori si batterono e ottennero l’Iva ridotta, non già in nome del “valore culturale” di tali prodotti (del quale, infatti, nella norma non v’è cenno), ma in base a un ragionamento legato alle particolari condizioni di distribuzione dei prodotti editoriali.
Libri, quotidiani e periodici, infatti, sono distribuiti e venduti con il sistema delle rese, micidiale dispositivo che rende “virtuale” la vendita di questi prodotti fino al momento in cui essi vengono effettivamente acquistati nel punto vendita, con un andirivieni di copie dall’editore, al distributore, alla libreria e viceversa che renderebbe assai complicata l’imputazione dell’Iva a ogni passaggio.
Allora si pensò di compensare questo perverso meccanismo con due dispositivi presenti nel Decreto: 1) la riduzione dell’aliquota; 2) la sostituzione del sistema di versamento “plurifase” (ogni soggetto paga l’Iva nella misura dell’aumento di valore del bene in un passaggio determinato) con il sistema “monofase”, che individua come contribuente di fatto il consumatore finale, ma come contribuente di diritto solo il primo soggetto che partecipa al processo economico di produzione-commercializzazione, nel nostro caso l’editore.
Gli editori, cioè, possono pagare l’Iva “a monte” del processo, indipendentemente dall’avvenuta vendita dei prodotti che immettono in distribuzione e vendita. In cambio di questa “anticipazione”, viene loro concesso di versare un’Iva ridotta al 4% e di versarla in misura del 70% (per i libri) o del’80% (per quotidiani e periodici) della tiratura, supponendo che le percentuali del 70 e dell’80 corrispondano alle medie delle rese per suddetti prodotti (aberrante? Sì: pensare che il 70% dei libri stampati non sarà venduto e circolerà nel mercato, per così dire, a vuoto, è di per sé indice di un sistema malato, a mio parere).
Parecchio ci sarebbe da dire su tutto il meccanismo, oggetto di un dibattito lungo quanto la vita del decreto, e sul quale rinvio a un intervento di Mario Guaraldi (http://guaraldi.bibienne.net/2010/07/), al volume di Paola Dubini “Voltare pagina” e a diversi miei articoli e lezioni, nei quali spieghiamo come il sistema di gestione delle rese sia l’anello debole della filiera e, insieme, il nodo attorno al quale si costruisce il “dominio” della distribuzione e la finanziarizzazione del mercato editoriale.
Nel frattempo, però, possiamo fermarci a riflettere prima di spingere i legislatori a partorire nuove norme.
Restando nei confini della legge attuale, se l’aliquota al 4% e il sistema monofase sono stati inventati per “compensare” il meccanismo delle rese, non dovremmo considerare l’assenza di tale meccanismo nel processo di commercializzazione dei prodotti editoriali digitali prima di invocare anche per questi l’abbassamento dell’aliquota?
Se invece ampliamo il ragionamento, non sarebbe corretto porsi qualche domanda su quali prodotti e perché debbano giovarsi di un’aliquota ridotta?
Ha senso che un libro di cucina o una raccolta di barzellette godano di un’aliquota ridotta come un volume dedicato allo studio? E se no, perché tale privilegio dovrebbe essere esteso anche ai rispettivi ebook?
E perché, allora, non dovremmo prevedere analoghe facilitazioni anche per altri prodotti digitali, per esempio i videogiochi?
Infine, non sarebbe opportuno, finalmente, ragionare su caratteristiche e qualità dei “prodotti” editoriali (in qualsiasi forma si manifestino), a partire dai contenuti che veicolano, piuttosto che dalle forme della loro commercializzazione?
Queste sono le domande che mi piacerebbe diventassero oggetto di discussione, prima di lamentare l’impossibilità di portare il mercato degli ebook ai livelli del cartaceo in nome della sperequazione delle aliquote Iva, e prima di imbarcarsi in campagne per la revisione delle leggi.
In ogni caso, la questione dell’Iva ormai non è più risolvibile entro le frontiere nazionali. Mi auguro che il Parlamento europeo, quando arriverà a deliberare, lo faccia sulla base di un’analisi attenta della questione: non sulla base delle sollecitazioni che provengono da alcuni grandi attori del mercato digitale, né da un’automatica omologazione delle aliquote, peraltro diverse nei vari paesi europei, sia per i libri che per gli ebook.
Articolo molto interessante. Avrei però due domande correlate sulla questione delle nuove professioni/competenze richieste dal libro digitale. Non è forse più realistico, nel medio e forse anche nel lungo periodo, che i redattori debbano essere in grado di produrre libri sia in formato digitale sia cartaceo – anche per i medesimi titoli? Vecchi e nuovi modi di fare i libri sono conciliabili?
Ciao Stefano,
grazie. La risposta alle due domande è sì, pensavo fosse chiaro da ciò che ho scritto: “Per esempio, i redattori dovranno imparare a curare i testi nati nel e destinati al digitale, non pensare più solo alla pagina, ma alle diverse modalità di presentazione e lettura dei testi digitali…”.
Carta e digitale (nei suoi vari formati) conviveranno a lungo, probabilmente con diverse articolazioni della produzione, sia all’interno di una medesima casa editrice, sia con case che si specializzeranno nell’uno o nell’altro formato. Penso non ci sia altra possibilità che sperimentare.
on luglio 3rd, 2012 at 11:19 #
[…] on http://www.luisacapelli.eu Share this:TwitterFacebookLike this:Mi piaceBe the first to like […]
“In tutti questi casi la pubblicazione digitale può rappresentare un’alternativa e può consentire di pubblicare opere che oggi non arrivano in libreria, favorendo il manifestarsi di un mercato editoriale digitale maturo in grado di offrire una parziale compensazione alle difficoltà del cartaceo. Più in generale, può incrociare il cambiamento che il digitale sta imprimendo alle abitudini di lettura e di scrittura, consentendo prove e sperimentazioni, reinventando il significato della parola libro”.
questa sua considerazione è estremamente interessante. Sto lavorando su questi concetti unendoli al rapporto circolare “lettore” “autore” “editore”, intorno al quale si possono innescare dinamiche coerenti con le nuove tendenze di marketing web.
La strada da fare è appena all’inizio, almeno credo, e questo, se appare difficile e confuso da sperimentare è al tempo stesso un territorio di sfida molto interessante.
Complimenti per l’articolo!
f
Io ritengo che non sia il redattore a dover cambiare la propria visione del lavoro ma che debba riappropriarsi del suo lavoro originale.
Oggi il redatto fa l’impaginatore, il grafico, e un sacco di altri mestieri che non hanno nulla a che fare con il testo.
Tutti questi cappelli che ha in testa portano confusione.
Il redattore deve fare il redattore e, implicito nel suo mestiere non c’è l’impaginazione o la scelta tipografica, quelli sono altri cappelli.
Nessuno dice che non possa essere la stessa persone ma deve essere fatto in momenti diversi.
Il digitale, con il suo cambiamento di flusso operativo (io faccio BPM per le case editrici) è perfetto proprio per far tornare ogni ruolo al suo compito originale e ottimale.
@Francesco Pintus, grazie. Sì, penso che la sfida sia molto interessante.
@Lordmax non sono completamente d’accordo. I redattori hanno visto progressivamente sovrapporsi sui propri tradizionali ruoli e funzioni altri compiti non solo a causa di un’organizzazione del lavoro confusa (e in permanente ricerca di risparmi), ma anche perché la digitalizzazione porta con sé – di fatto – una mutazione del lavoro.
Se condividiamo alcune analisi sui cambiamenti nelle logiche di produzione e consumo, e verifichiamo l’esistenza di “prosumer” a livello diffuso (e non solo amatoriale), questo non può che incidere anche sull’organizzazione nei luoghi di lavoro dove determinate funzioni tecniche sono state “incorporate” in altre.
Ho compiuto le primissime esperienze in editoria quando si componeva a piombo, confrontandomi con un mestiere, quello del proto, che anche fisicamente era distante da quello di redattori ed editor. Già con il passaggio all’impressione fotografica delle lastre, ero io stessa a generare le pellicole per la stampa dal file di impaginazione – e sostituirle, quando necessario. Un processo divenuto ancor più ridotto da quando le lastre vengono generate direttamente dal file.
Non è detto che ogni redattore debba necessariamente saper impaginare, ma l’evoluzione del digitale penso semplificherà ulteriormente alcuni passaggi – rendendo le interfacce di composizione amichevoli e, speriamo, open source – integrando in misura maggiore compiti fino a poco tempo fa separati.
Il tempo di lavoro che si guadagna se a organizzare il testo nella pagina – o nel flusso – è chi quel testo conosce, ci ha lavorato e può intervenirvi con certe dosi di libertà, è enorme e non è pensabile che le redazioni facciano a meno di organizzarsi tenendone conto.
Per questo penso che, con tempi più o meno lunghi, ruoli e funzioni tenderanno a sovrapporsi ancora più marcatamente di quanto sia finora avvenuto. Questo significa che ai redattori occorrerà acquisire nuove skill, non che per risparmiare si debba chiedere loro di fare di tutto un po’, anche malamente e pagandoli miserie. E probabilmente alcuni ruoli e funzioni resteranno comunque separati più a lungo, come le competenze grafiche più sofisticate, per esempio.
Grazie per la risposta, Luisa. Mi permetto di farti un’altra domanda sempre in relazione alla questione che ho sollevato: redazione del libro cartaceo vs redazione del libro digitale. Vi sono alcuni costi di redazione specifici per la carta (es. preparazione di indici dei nomi con riferimenti ai numeri di pagina dell’edizione a stampa) e costi di redazione specifici per l’edizione digitale (es. arricchimento di apparati iconografici per creare timeline ecc.). Pensi che in una prospettiva di medio e lungo periodo, che vede la coesistenza di cartaceo e digitale, anche questi costi “doppi” possano essere sostenibili?
on luglio 4th, 2012 at 08:12 #
[…] post di economia editoriale, sul blog di Luisa Capelli, è molto lungo ma molto, molto bello e interessante. Share […]
Grazie a te, Stefano.
Non sono in grado di fare previsioni su questioni tanto specifiche. Anzi, non sono in grado di farle in assoluto, mi limito a osservare le tendenze cercando di immaginare cosa potrebbe avvenire se alcune possibilità venissero percorse con maggiore coraggio e non solo rincorrendo il mainstream quando non restano alternative.
Certo, se penso agli apparati paratestuali, oggi, penso soprattutto a forme di organizzazione di link ;)
Ma il dettaglio che per gli ebook l’IVA è al 21% anziché al 4, inficia la conclusione “Ci si avvicina al pareggio dei costi con assai maggiore probabilità (70-95%)”. Chi leggesse solo il post, e non i commenti, resterebbe convinto che fare ebook sia la soluzione per abbassare il costo dei libri, mentre così non è.
Buongiorno Francesca.
Nella forbice dei costi ipotizzata per gli ebook (70-95%) c’è agio di considerare la differenza determinata dalla maggiore aliquota (17%), mantenendo comunque un piano di conti tendente all’equilibrio.
Il ragionamento che cerco di fare nel post non è tanto quello di mostrare che gli ebook abbiano costi inferiori ai libri di carta, ma indicare, nelle produzioni digitali, una possibile maggiore pluralità rispetto a quanto avviene nel mercato dei libri di carta.
Ho letto con molto interesse l’articolo e, da profano, mi sorgono alcuni dubbi.
Mentre nella distribuzione classica è evidente il valore aggiunto dei vari attori (reti vendita, distributori e librerie; sono poi scontati ed ancor più evidenti i costi vivi di stampa, movimentazione, magazzinaggio, trasporto, resi e macero e tutti i costi amministrativi connessi), nella versione digitale questi vantaggi mi sembrano molto meno evidenti. Mi sembra che la cristallizzazione verso il sistema tradizionale della catena del valore stia creando una distorsione inaccettabile verso i nuovi players che non trova una giustificazione nel valore aggiunto da questi fornito.
Il costo prevalente di una transazione on-line è dato, credo, dal costo della gestione del pagamento (non considero, per semplicità, il costo dei sistemi di protezione). Il resto è caratterizzato da costi fissi (connessioni, server, storage) e da costi variabili tendenti a zero. A quali si aggiungono gli eventuali costi del customer care. Tutto il processo, teoricamente, dovrebbe essere completamente automatizzato, dall’inserimento del titolo, con descrizione, caratteristiche e quant’altro da parte dell’editore, alla presentazione, alla vendita e al download dell’opera. Perché una libreria on-line, allora, deve scimmiottare la catena del valore classica e richiedere un margine che va dal 30 al 50%? Non le sembra che sia questo il problema principale, oltre ovviamente all’IVA al 21%, del costo egli ebooks? E su questo punto la colpa non è degli editori, che invece di vedervi un’ottima opportunità di disintermediazione del canale, replicano a fatica gli schemi commerciali tradizionali?
Potrei anche riconoscere royalty aggiuntive alla libreria on-line, ma a fronte di servizi quali la promozione o la pubblicità; altrimenti per cosa starei pagando? Ma quelle non dovrebbero essere le attività degli editori? Insomma Internet, che nel caso di prodotti digitali, dovrebbe permettere la vendita e il contatto diretto col cliente da parte degli editori saltando gli intermediari commerciali, sta diventando il regno degli intermediari che soffocano gli editori stessi (sono loro a essere disintermediati). Sembra una follia, non trova?
Forse le mie sono solo le banali considerazioni di un non addetto ai lavori e vorrei sentire la sua opinione in merito.
Interessantissima analisi che ha confermato alcune mie ipotesi sui numeri e illuminato su altri aspetti.
L’IVA al 21% sugli ebooks è scandalosa e condivido le perplessità dell’autore del commento precedente sui costi dal 30 al 50% per le librerie on-line. Peccato perchè in questo momento orrendo di crisi gli ebook potrebbero forse essere la salvezza per continuare a vendere libri.
on novembre 12th, 2013 at 19:01 #
[…] Secondo l’analisi di Luisa Capelli, docente di Economia e gestione delle imprese editoriali presso l’università di Roma “Tor Vergata”, nella produzione di un libro i costi di raggiungimento dei punti vendita (distribuzione, promozione, librerie, gestione delle rese) sono la voce di spesa maggiore per un editore. Per un volume venduto a 15 euro e con una tiratura di 3000 copie (secondo i dati ISTAT, nel 2010 la media delle tirature per titolo è stata di circa 3.340 copie e il prezzo medio di 20,5 euro) questi costi assorbono circa il 62% del prezzo di copertina. Tra questi costi spicca ad esempio il dato relativo alla media dei resi invenduti per ogni pubblicazione che si aggira intorno al 25% delle sue copie, un problema che chiaramente il libro digitale non presenta. Si tratta di un esempio generico, costruito su dati statistici e senza considerare le particolarità di ogni settore editoriale (in queste statistiche per intenderci rientrano opere dalle caratteristiche di produzione e distribuzione completamente diverse, dal romanzo best-seller alla raccolta di poesie), ma pur sempre estremamente significativo. […]
In realtà, pare che il problema dell’iva al 22% sia un falso problema perché in alcuni ambiti non si pone. Esempio: pubblicare un ebook sul Kindle di Amazon (che è il principale player) ha un’iva del 3% poiché viene applicata l’iva del Lussemburgo, dove ha sede Amazon UE…
Gentile Luisa, mi permetta di chiederle un parere sulla recente circolare nr 23 del 24/07/14 dell’Agenzia delle Entrate riguardante il regime speciale IVA per il commercio di prodotti editoriali.
L’art. 3 richiama il presupposto per l’applicazione dell’IVA al 4%, esulando dal tema principale del regime speciale applicato per gli editori.
Quindi riporta la norma che è applicabile l’IVA ridotta al 4% anche alle prestazioni relative alla composizione, montaggio, legatoria e stampa dei prodotti editoriali e ad un certo punto recita così: “Le predette prestazioni esulano dal campo di applicazione del regime speciale in commento. Per esse, pertanto, è ininfluente la circostanza che il soggetto committente sia qualificabile come editore”.
Dalla lettura del citato art. 3 io capisco che l’IVA al 4% è applicabile alla produzione di libri, in tutta la catena dall’impaginazione alla stampa alla confezione, e che soprattutto anche chi non svolge l’attività di Editore può godere di tale IVA ridotta.
Le chiedo la cortesia di darmi un suo parere sulla questione.
Grazie. La saluto cordialmente.
on febbraio 16th, 2015 at 13:43 #
[…] Secondo l’analisi di Luisa Capelli, docente di Economia e gestione delle imprese editoriali presso l’università di Roma “Tor Vergata”, nella produzione di un libro i costi di raggiungimento dei punti vendita (distribuzione, promozione, librerie, gestione delle rese) sono la voce di spesa maggiore per un editore. Per un volume venduto a 15 euro e con una tiratura di 3000 copie (secondo i dati ISTAT, nel 2010 la media delle tirature per titolo è stata di circa 3.340 copie e il prezzo medio di 20,5 euro) questi costi assorbono circa il 62% del prezzo di copertina. Tra questi costi spicca ad esempio il dato relativo alla media dei resi invenduti per ogni pubblicazione che si aggira intorno al 25% delle sue copie, un problema che chiaramente il libro digitale non presenta. Si tratta di un esempio generico, costruito su dati statistici e senza considerare le particolarità di ogni settore editoriale (in queste statistiche per intenderci rientrano opere dalle caratteristiche di produzione e distribuzione completamente diverse, dal romanzo best-seller alla raccolta di poesie), ma pur sempre estremamente significativo. […]