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Ricevo e pubblico (chissà che non ci siano filantropi tra i lettori):
Egregi Professori,
a causa delle note difficoltà finanziarie, La Biblioteca non potrà procedere all’acquisto dei testi in adozione per gli esami previsti per l’a.a. 2011/12. Chiedo di valutare la possibilità, laddove sia possibile e nell’interesse degli studenti, di fornire alla Biblioteca una copia dei testi d’esame.L’immagine è di ptwschool.com
Nel numero di luglio di “Altreconomia” è uscito un articolo di Federica Seneghini dal titolo evocativo In libreria come al supermercato.
Federica Seneghini si è scontrata, come molti, con la difficoltà di reperire dati aggiornati sulla situazione del mercato editoriale italiano e, durante la ricerca, si è imbattuta sulle informazioni che da anni raccolgo per lo svolgimento del corso di Economia e gestione delle imprese editoriali all’Università di Tor Vergata.
Con Federica abbiamo avuto un lungo colloquio che ha costituito lo spunto per l’articolo e che mi auguro contribuirà a sollecitare ulteriori ricerche: rendere pubblici dati che in molti conoscono, ma che raramente vengono diffusi dalle principali fonti di informazione, è un obiettivo di trasparenza in grado di contribuire alla conoscenza condivisa e al superamento di iniquità del sistema.
L’articolo, cui si è aggiunto un commento di Paolo Soraci (Ufficio stampa delle Librerie Feltrinelli), è ora disponibile on line e si tratta di un buon punto di partenza per ragionare sul mercato editoriale italiano.
Prendete un libro di Altreconomia. Facciamo che costi 10 euro. 40 centesimi vanno subito in Iva. Un euro circa per la stampa. Altrettanto per editing e grafica. 80 centesimi vanno all’autore. Siamo già a 6,80 euro. Poi Ae decide che quel libro va in libreria. Il distributore nazionale cui si affida chiede il 56% di sconto (lui applicherà alle librerie il 30%). Da quel libro quindi, Ae porta in cassa la bellezza di 1,20 euro. A fine anno però si scopre che il distributore si è visto costretto a fare ulteriori sconti ai librai, in particolare alle grandi catene. Pena, l’esclusione dagli scaffali.
Fatti i conti, lo sconto reale arriva al 63%. Tradotto, per ogni libro da 10 euro ad Ae restano 50 centesimi, il 5%. Vi pare normale?
Continua a leggere qui.
Caro Marco,
sto seguendo con attenzione il dibattito successivo al tuo post e alle precedenti riflessioni di Barillari (e del gruppo TQ).
Anche io ho avuto modo in questi anni di riflettere e discutere del mestiere di editore attraverso l’impegno universitario, oltre che misurandomi quotidianamente con il lavoro editoriale.
Proprio il confronto serrato con gli studenti ha costituito l’occasione per riuscire a cogliere con maggiore profondità di analisi alcuni dei nodi in cui si dibatte l’industria libraria, da un lato prendendo la necessaria distanza dalle contingenze dell’attività editoriale, dall’altro sottraendosi ai periodici (e spesso vacui) tormentoni cui ci trascina il dibattito, più o meno mainstream.
Tenterò, perciò, di ragionare sulle tue riflessioni e sulla tua proposta, riprendendo alcune considerazioni che proponevo più di un anno fa, aggiornandole alla discussione presente che vorrei non si riducesse al sondaggio pro o contro lo slogan del giorno, rischio che tu stesso segnali e dal quale inviti a sottrarsi.
Partirei però proprio da quello slogan, “decrescita editoriale”, poiché in quella formula è insita l’idea che pubblicare meno significhi pubblicare “meglio”. Già la nozione di un meglio (per chi? su quali basi?) è portatrice, se va bene, di pericolosi equivoci; se poi guardo alla mia personale esperienza nella saggistica posso testimoniare che i libri migliori, spesso, nascono dallo scambio e dalla condivisione di una riflessione comune, da un confronto plurale (che di frequente si traduce in altrettanti volumi), piuttosto che dal parto romantico e solitario di un autore (eventualmente accompagnato al suo editor/editore). Questo lavoro collettivo è divenuto oggi assai più evidente grazie alla rete, là dove le persone coltivano specialismi apparentemente autoreferenziali, che osservati meglio si manifestano come nicchie di saperi importanti da coltivare. Come per l’università: quando si ragiona sull’utilità di mantenere un corso, che so, di assirologia, pur essendoci solo due iscritti. Quale sarà l’ateneo che potrà e vorrà permettersi di mantenerlo, in perdita certa per gli attuali parametri di valutazione?
Per la narrativa le cose vanno diversamente? Certo, sui cloni dei vampiri, maghetti o signore in cucina potremmo imporre una moratoria. Ma su che base scegliere la migliore riedizione di un classico? Il marchio editoriale, il prezzo, una certa introduzione, una nuova traduzione? E come esser fiduciosi nella capacità e volontà dell’editoria di sperimentare, pubblicando l’autore ignoto, la ricerca stilistica, i contenuti innovativi, se il budget previsionale segna negativo?
Il fatto è che la conoscenza (l’arte, l’informazione, i saperi…), in quanto bene comune, è irriducibile all’utile (e non solo a quello economico), mentre i sistemi di selezione si basano, oggi, quasi unicamente su quello.
Con gli studenti, quest’anno, abbiamo avviato un blog di recensioni dedicato alle pubblicazioni degli editori indipendenti: per molti di loro, confrontarsi con una produzione tanto ricca quanto semisconosciuta è stata un’autentica sorpresa. Conoscevano alcuni di quegli editori, ne avevano letto qualche libro, ma la dimensione della proposta, in termini di ricerca, cura, scommessa culturale ha rappresentato una scoperta che penso resterà nella loro esperienza di lettori. Come lettori, d’ora in avanti, a prescindere dal canale in cui sceglieranno di compiere i loro acquisti (libreria di catena, indipendente, store on line), sanno che vale la pena cercare oltre le proposte da banco o da vetrina.
Se riteniamo importante consentire di esprimersi a questa pluralità di offerta, alla bibliodiversità, il problema però è come riuscirci, posto che quanto affermato da Gian Arturo Ferrari – pubblicare costa così poco da convenire più di un’indagine di mercato su quello stesso titolo – vale probabilmente per i grandi gruppi editoriali, non certo per editori che con poche decine di migliaia di euro mandano avanti la baracca intera (e forse adottano sistemi diversi dalle indagini di mercato per scegliere i libri da pubblicare).
Il punto è spinoso, poiché anche l’editoria digitale, che altrove sta già offrendo un’alternativa fondamentale alle perverse regole del mercato tradizionale, si troverà a sua volta a fare i conti con forme di concentrazione altrettanto potenti giocate dai grandi player globali – Amazon, Google, iTunes (e tale possibilità mi pare assai più realistica della paventata deriva in cui ciascuno si trovasse a leggere solo se stesso).
La peculiarità dell’editoria digitale – gli ebook in tutti i formati, noti e che verranno – sta nella sua capacità di imporre un ripensamento radicale al ruolo e al lavoro dell’editore: non un comparto del lavoro editoriale (i libri che stampiamo, li produciamo anche in ebook), ma la riconsiderazione delle modalità con le quali pensiamo, progettiamo, scriviamo e pubblichiamo i libri. C’è veramente molto che può essere sperimentato, nonostante le arretratezze strutturali e culturali, e ancora troppo scarse in Italia sono le iniziative (per esempio qui, qui e qui).
Esperienze di questo tipo penso abbiano molto da insegnare sulle modalità con le quali restituire centralità al rapporto con i lettori, un rapporto che nell’editoria digitale vede i ruoli confondersi e oltrepassare le logiche tradizionali; logiche che di frequente, negli ultimi anni, mi si sono mostrate attraverso il paradosso di far sentire inadeguata l’editrice agli occhi della lettrice.
La legge Levi sul prezzo dei libri è un esempio recente e calzante, poiché la “difesa” di editori e librai indipendenti, con il tetto del 15% allo sconto, alla fine, la pagherà proprio quel già esiguo manipolo di lettori (circa 3 milioni dai 6 anni in su) che legge almeno un libro al mese. Ha senso imporre un tetto allo sconto sui libri mentre ogni altra scelta di politica culturale si muove in senso inverso e una parte dei big interessati, sappiamo fin d’ora, per consuetudine con gli svariati conflitti d’interesse, troveranno il modo di “eccepire” alla regola? In altri paesi, il prezzo imposto sui libri si accompagna a investimenti a sostegno di istituzioni pubbliche, librerie, editori e biblioteche (da noi l’Aib denuncia, per il 2011, tagli all’acquisto di libri fino al 35%), a serie (cioè selettive, mirate, attente alla qualità) campagne di promozione della lettura tra i giovani e gli adulti: si chiede ai lettori di pagare un costo in nome di un principio perché Stato e attori economici rispettano quel principio e restituiscono quel costo in altra forma. Il circolo è virtuoso, mentre qui rischia di divenire vizioso come altre forme di protezione corporativa delle quali si giovano soprattutto i soliti noti.
Esempi se ne potrebbero fare altri, a partire dall’oligopolio dell’editoria scolastica, talmente smodato da spingere qualche anno fa l’Antitrust ad aprire un’inchiesta per appurare la presenza di accordi di cartello sui prezzi: abbiamo qualcosa da dire, in proposito? Abbiamo da dire qualcosa sul ruolo dell’Aie, in questa come in altre circostanze, giacché l’associazione parla e agisce a nome di tutti gli editori, non essendoci altre voci rappresentative delle imprese editoriali?
A ragionare sulle questioni emerge una complessità irriducibile, che non si può affrontare solo con i buoni propositi dei singoli (mi dedico scrupolosamente alla raccolta differenziata, ma se il sistema di raccolta dei rifiuti è incoerente con i comportamenti virtuosi, campa cavallo…).
Quando, alla fine del 2008, lanciammo un appello per la sopravvivenza della Meltemi molti colleghi ripeterono per l’ennesima volta la tiritera “è il mercato, baby”, aggiungendo poi che tanto il libro “è anticiclico e si avvantaggia delle crisi” e che quindi la splendida macchina del mercato editoriale sarebbe tornata a brillare. Oggi si è allargata la schiera di quanti sono consapevoli che il mercato non è affatto libero (e quand’anche lo fosse non dà risposte adeguate per i beni comuni) e che lo stato depressivo del nostro Paese è ben più strutturale e profondo di quanto possa essere determinato dalle più acute crisi finanziarie.
Stendiamo pure un decalogo di azioni positive (proposte ne sono state fatte diverse, per esempio qui e qui, e altre in passato), ma non perdiamo di vista l’insieme, che chiede una puntuale analisi critica di scelte politiche e comportamenti imprenditoriali, urgenti proposte e corposi interventi di inversione della rotta.
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Di seguito, i link ad alcuni dei post e articoli sull’argomento che tenterò di mantenere aggiornati:
Alcune modeste proposte per le case editrici, a cominciare dalla mia, di Marco Cassini (pubblicato il 14 luglio 2011, poi il 18 su minimaetmoralia);
Per un patto di decrescita nella produzione delle opere culturali, di Simone Barillari (28 giugno 2011, minimaetmoralia);
L’idea della graduale decrescita editoriale, di Antonio Dini (14 luglio 2011, Il Sole 24 Ore);
Nell’era della decrescita anche l’editoria prova ad adeguarsi, di Francesco Longo (14 luglio 2011, il Riformista);
Premi, Grant e cattedre: idee per il mestiere di scrivere in Italia, di Giordano Tedoldi (14 luglio 2011, minimaetmoralia);
Meno libri, di Luca Sofri (15 luglio 2011, Wittgenstein);
Newton Compton ad Affaritaliani.it: “Sì alla ‘decrescita’, ma servono anche i prezzi più bassi…”, di Antonio Prudenzano (18 luglio 2011, Affaritaliani.it)
Meno titoli per tutti, di Loredana Lipperini (18 luglio 2011, la Repubblica);
Decrescita infelice (per il libraio), di Disagiato (18 luglio 2011, Sempre un po’ a disagio);
Libri, la decrescita felice votata dai grandi editori, di Maurizio Bono(19 luglio 2011, la Repubblica);
“Decrescita felice? Da sempre Feltrinelli non inonda il mercato. E i risultati ci danno ragione, anche in un momento difficile come questo” (intervista a Gianluca Foglia), di Antonio Prudenzano (19 luglio 2011, Affaritaliani.it);
Signore e signori: l’Editoria! – Lettera aperta agli editori, di Luigi Bosco (20 luglio 2011, poesia 2.0);
Simone Perotti e la “decrescita felice” nell’editoria…, di Simone Perotti (20 luglio 2011, Affaritaliani);
Giulio Milani (Transeuropa) e la decrescita felice: “Valorizzare le bibliodiversità”, di Giulio Milani (20 luglio 2011, Affaritaliani);
Editori iperproduttivi e anomalie del mercato, di Marco Cassini (21 luglio 2011, la Repubblica) vedi post e commenti qui: Concentrazioni (21 luglio, Lipperatura);
Salva un libro, uccidi un editore, di Ilaria Bussoni (21 luglio 2011, il manifesto);
“Anomalia italiana nell’editoria intervenga l’Antitrust“, di Andrea Cortellessa (21 luglio 2011, la Stampa);
Editoria: decrescita felice e circoli viziosi, di Cristiano Abbadessa(21 luglio 2011, paperblog);
Ecco perché gli editori pubblicano così tanto, di Gian Arturo Ferrari (22 luglio 2011, la Repubblica) vedi post e commenti qui: I sassi del fondo (22 luglio 2011, Lipperatura);
Sommersi dai libri, di Simone Ghelli (22 luglio 2011, Scrittori precari);
Ma è decrescita o trionfo del bestseller?, di Andrea Libero Carbone (23 luglio 2011, il manifesto);
Autori, editori e librai/2, di lucius (24 luglio 2011, Editing and Publishing);
‘Pubblicare meno, pubblicare meglio’… Pubblicare digitale?, di Maria Cecilia Averame (25 luglio 2011, Maria Cecilia Averame, Quinta di copertina);
De Michelis (Marsilio): “Con Amazon noi editori saremo costretti a produrre di più…”, di Antonio Prudenzano (25 luglio 2011, Affaritaliani).
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[Update 1 agosto 2011]Tener dietro al dibattito, intenso nonostante il periodo, non è affare semplice, anche a causa della pubblicazione, in questi stessi giorni, dei manifesti della generazione TQ. Di questi e le relative discussioni (ricchissime, in rete e sulla stampa) non darò conto qui poiché meritano una riflessione autonoma, anche se intrecciano numerose questioni sollevate dal mio post, come pure da molti tra quelli in elenco.
Va segnalata, però, una sorta di biforcazione del dibattito: mentre attorno ai manifesti TQ si sviluppano analisi e discussioni di politica culturale “generale”, gli altri interventi si concentrano prevalentemente sulla legge Levi e i suoi esiti. Questo ramo della discussione è animato dalla contesa (detto molto a spanne) tra coloro che sostengono necessaria una difesa dell’editoria tradizionale indipendente (piccoli editori, librerie, ecc.) attraverso specifiche forme di protezione, e coloro che ritengono tali provvedimenti illiberali e punitivi (nei confronti dei lettori oltre che verso i concorrenti) e auspicano un’accelerazione della transizione al digitale con conseguente adeguamento degli attori in campo.
Oltre ai link segnalati, ulteriori fonti di aggiornamento possono essere reperite su Twitter, seguendo gli hashtag #LeggeLevi, #editoria, #libri.
Le dimissioni di Guaraldi dall’AIE, di Mario Guaraldi (27 luglio 2011, bibienne);
I conti di Sandro Ferri, di Sandro Ferri (28 luglio 2011, Lipperatura);
Interesse pubblico, di Stefano Chiodi (29 luglio 2011, doppiozero);
Compiti delle vacanze, di matteob (29 luglio 2011, bookrepublic);
Vendere libri con l’aiuto dei pirati, di Giuseppe Granieri (30 luglio 2011, La Stampa);
Legge Anti-Amazon: felicità nella AIE e dimissioni, del Duca di Carraronan (31 lug 2011, Baionette librarie);
La difesa del piccolo libraio?, di Massimo Mantellini (31 luglio 2011, manteblog);
Verso un’ecologia della produzione editoriale, di Simone Barillari (31 luglio 2011, il manifesto);
Cultura non a buon mercato, di Manuel Peruzzo (1 agosto 2011, Il Giornale di Letterefilosofia);
DDL Levi “Nuova disciplina sul prezzo dei libri”, Comunicato dell’Associazione Italiana Biblioteche (1 agosto 2011, ora anche su Nazione Indiana);
Come salvare la nave che affonda?, di Martina Testa (2 agosto 2011, Le reti di Dedalus; anche su minimaetmoralia);
Incompetenti, per fortuna, di noiseFromAmeriKa (3 agosto 2011).
Faccia la cortesia, si Levi, di Massimo Mantellini (3 agosto 2011, manteblog).
Che intollerabile e osceno groviglio di stereotipi e nefandezze si nasconde dietro l’ultima arrivata delle definizioni di questa epoca decadente, “bunga bunga“. Dalla storica rimozione di un vergognoso passato coloniale, alla umiliazione di donne ricondotte a un fantomatico, orgiastico, stato naturale.
E vorrebbero pure farti sentire priva di senso dell’umorismo se proprio non puoi sorridere a tale scempio.
Vero è che non scrivevo da mesi un post, ma veder scomparire il blog per molte ore, e darlo quasi per morto, un po’ d’ansia me l’ha data.
Aruba dice che all’origine del black out (che ieri ha oscurato in un colpo centinaia di siti, compreso quello di Aruba) sia stato un errore umano cui è seguito lo spegnimento dell’impianto elettrico.
Staremo a vedere. Certo, bel biglietto da visita per un’azienda che da qualche giorno diffonde i suoi spot pubblicitari su La7.
Un’idea di futuro: è quella che manca in questo Paese da troppo tempo, che è mancata durante la campagna elettorale di queste elezioni regionali e di cui siamo stati tutti privati in nome di un presente avvolto sulla difesa dei propri interessi. E a cui l’oblio del passato presta servizio senza sosta (e smettiamola di sventolare le bandiere di un nuovo senza storia, per favore).
Lo scenario che esce da queste elezioni regionali è pessimo, e non mi appassiona il computo delle regioni che vanno di là e quelle che restano di qua (qua dove?).
Sì, ci sono le eccezioni di Puglia e Basilicata (meno, molto meno, Liguria, Umbria ed Emilia), qualche nome che qui e là riesce a farsi largo tra le nomenclature, ma quello che esce vincente dal risultato elettorale del 29 marzo è il mondo della politica di professione, o quello delle cricche variamente assortite. In tutti i partiti, si vedano i voti di preferenza (e non solo in provincia).
Un terzo di cittadini, quasi il 40% se sommiamo le nulle e le bianche alle astensioni, si sono chiamati fuori, e non penso affatto che fossero tutti a festeggiare l’unica Emma vincente di ieri, quella di Amici.
Occorre tagliare i ponti con un modello di mondo – quello nazionale, fatto di boss e veline e quello planetario, costituito da violenze e spoliazioni senza limite – e pensarne uno diverso, che abbia la forza di attrarre energie, intelligenze, coraggio.
L’ho scritto e lo ripeto: ci tocca pensare al futuro se vogliamo guarire il presente.