categorie: la mia idea di giustizia
Sarà lo sciopero di Emma Bonino per denunciare le irregolarità nella raccolta delle firme per la presentazione delle liste. Sarà che nessuna delle due coalizioni nel Lazio è riuscita finora a emergere lanciando una proposta forte e visibile ai cittadini. Fatto sta che i segni della competizione elettorale si riducono ai soliti faccioni che infestano il panorama e al gossip sui candidati.
Sarà anche per questo che i sondaggi continuano a rilevare una situazione di parità tra le due candidate a governatrici della regione.
Il misero dibattito sullo sciopero di fame e sete di Emma Bonino la dice lunga. Che si sia o meno d’accordo sullo sciopero, è stato denunciato un problema enorme, che ha parecchio a che fare con la mutazione in atto nella società e nella politica italiana. L’ennesima legge viene disattesa. Ma questa volta a subire le conseguenze di regole costruite su misura della prima Repubblica (quando i partiti erano in grado di mobilitare centinaia di persone in pochi giorni) non sono più solo i partiti “storicamente” minori: la faccenda investe un po’ tutti, le cause sono note e in gran parte legittime.
Penso che una candidata governatrice dovrebbe utilizzare modalità diverse dallo sciopero della fame per chiedere il rispetto e il ripristino delle garanzie democratiche, ma il silenzio e/o certe forme di solidarietà paternalistica su questa vicenda dovrebbero suonare come un campanello d’allarme per quanti ancora nutrono qualche speranza nella costruzione di una politica per i cittadini.
Dopo l’ennesimo intervento in cui ha insultato ancora una volta magistrati, giornalisti e corte costituzionale, oltre a chiunque si opponga al suo governo, il cavaliere è stato aggredito da uno psicolabile.
C’era da aspettarsi che accadesse, ma l’unico a cui può giovare un atto di tale idiozia è proprio Berlusconi.
Prepariamoci all’onda mediatica di riprovazione e disprezzo verso chiunque abbia mai pronunciato una parola contro il berlusconismo.
Ma prepariamoci con il sorriso, come abbiamo fatto il 5 dicembre con le nostre sciarpe viola.
Sorridendo, poiché per noi è divertente e bello immaginare di vivere in un Paese con un’informazione libera, con una giustizia e un parlamento che finalmente facciano il proprio dovere senza ostacoli, con un governo che risponda alle emergenze che impediscono un’esistenza serena a tanti cittadini italiani.
Siamo preoccupati, offesi e stanchi, ma non siamo violenti e sappiamo sorridere, poiché gli unici interessati a seminare odio sono coloro che difendono privilegi e impunità cui non possono permettersi di rinunciare.
Lo conosciamo tutti, l’abbiamo studiato alla noia, ma l’abbiamo troppo in fretta dimenticato.
Qui ad Atene noi facciamo così (Pericle – Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.)
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
In un Paese normale il governo, nel suo esercizio del potere esecutivo, dovrebbe occuparsi di rendere migliore la vita dei suoi cittadini. Dovrebbe occuparsi di questo, seguendo le priorità dettate dal proprio programma politico, condiviso dalla maggioranza che lo ha votato.
In un Paese normale, per approvare leggi di rilievo costituzionale – cioè che modificano in qualche modo lo spirito e lo scritto della Carta fondamentale – occorre che nel parlamento, che esercita potere il legislativo, si stabilisca un ampio consenso, un consenso molto più esteso della maggioranza di governo. Questa non è di per sé la garanzia che le leggi approvate siano rispettose della Carta, ma riduce (o dovrebbe ridurre) i margini di errore e di parzialità dei provvedimenti.
In un Paese normale, se il governo vuole far approvare una legge di modifica della Costituzione, dovrebbe auspicare – nella logica di collaborazione tra i poteri che bilanciano la vita democratica – che quella legge fosse sottoposta al giudizio del massimo grado del potere giudiziario, la Corte Costituzionale, poiché i giudici componenti della Corte si esprimono a nome e per conto di tutti i cittadini e dei loro diritti.
La legge 124 del 2008 “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, cosiddetta “lodo Alfano” è una legge che modifica la Costituzione. La modifica in due articoli importanti, ha sentenziato ieri la Corte Costituzionale. Nell’art. 3, “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E nell’art. 138, “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.
Se vivessimo in un Paese normale questa legge – che di fatto stabilisce l’immunità per il Presidente del Consiglio – non avrebbe dovuto essere presentata; non avrebbe dovuto essere approvata in Parlamento; infine, non avrebbe provocato l’indignazione di tanti cittadini, un milione dei quali hanno firmato per sottoporla a referendum abrogativo.
Se vivessimo in un Paese normale, non si dovrebbe dare un altro nome a questa legge per cercare di farla approvare, ma si dovrebbe tornare ciascuno ai propri compiti istituzionali. Noi cittadini ne abbiamo bisogno.
Se vivessimo in un Paese normale, sarebbe giusto che Silvio Berlusconi affrontasse i processi in cui è imputato (corruzione in atti giudiziari e reati societari).
Se vivessimo in un Paese normale sarebbe giusto che chi, come il nostro Presidente del Consiglio, ha forzato la mano al governo e al parlamento e costretto il più alto organo della magistratura a respingere una legge per le sue caratteristiche di ingiustizia e di parzialità (legge ad personam), si dimettesse dal suo incarico per difendersi nelle aule di giustizia senza trascinare nel discredito il Paese che rappresenta.
Ho vissuto in Sicilia circa due anni, vicino a Catania.
Uno dei ricordi più vividi e straordinari che ho di quella terra sono le passeggiate che insieme al mio compagno facevamo nella campagna intorno a Caltagirone. Ci piaceva camminare nei poggi vicini al sito archeologico di Sant’Ippolito, dove si estende una vasta necropoli siculo-greca. Giungevamo in quelle ampie colline incolte al mattino presto, prima che il sole si facesse incandescente, e spesso le trovavamo segnate da ampi e profondi solchi prodotti dai trattori. Ma non si trattava di arature destinate a preparare il terreno per le coltivazioni. No, il compito dei trattori era smuovere la terra predisponendola ai sopralluoghi degli apparecchi cercametalli.
Un “rodato” sistema di saccheggio del territorio, in questo caso dei beni archeologici, replicava un tristissimo copione che, per estrarre i metalli – più “facili”, per dimensioni e redditività – distruggeva ogni altro manufatto presente sotto terra.
Procedere per quelle terre dopo tali passaggi significava incontrare, quasi a ogni passo, frammenti di terraglie maciullati dalle ruote o dalle pale dei macchinari agricoli. Raccoglievamo cocci, assemblando pezzi e immaginando oggetti che ai nostri occhi rappresentavano tra le cose più preziose di quel territorio: per la storia, le abilità, la cultura di un popolo.
Nessuno osava ribellarsi e men che meno denunciare: a organizzare e gestire saccheggio e commercio erano famiglie note e temute della zona. E d’altra parte – questa era la giustificazione –, perché salvare qualche coccio destinandolo a finire in uno scantinato di museo?
Questo senso di impotenza, di sfiducia nello Stato, e prima ancora l’abitudine arresa al sacco delle ricchezze umane e ambientali, è una ferita sempre aperta in Sicilia. Una ferita che questa sera a Palermo – e in qualche altro luogo – si tenta di sanare.
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La lettera di Salvatore Borsellino
Innanzitutto non vorrei che quello che stiamo preparando venisse chiamato o inteso come “commemorazione”.
Le commemorazioni si fanno in Via D’Amelio a Palermo ormai da 17 anni e quello che io voglio fare è proprio spezzare questa catena che sta diventando ormai una abitudine. Per alcuni, i palermitani, forse gli stessi che parteciparono alla cacciata dei politici dalla cattedrale di Palermo il giorno dei funerali dei ragazzi della scorta e che oggi sembrano avere dimenticato quei momenti di indignazione e di rivolta, è un momento per risollevarsi dall’indifferenza e dall’assuefazione nelle quali sono ricaduti e per giustificare davanti alla propria coscienza, con una sempre più stanca partecipazione di qualche ora di quel giorno, il loro silenzio di oggi, Per altri, i complici morali o materiali di quella strage, è un periodico ritornare sulla scena del delitto ed assicurarsi che le vittime siano state effettivamente eliminate; il mettere corone e sentire suonare il silenzio è qualcosa che psicologicamente li rassicura, è proprio il silenzio che vogliono fare calare sui veri motivi e i veri mandanti di quella strage.
Ma quel giorno il buio che questo sistema di potere ha fatto calare su tutto quanto riguarda Via D’Amelio, il centro del SISDE sul castello Utveggio, l’agenda rossa sottratta e per cui viene negato anche un dibattimento in un pubblico processo, si deve necessariamente interrompere e per un giorno i riflettori sono accesi e illuminano tutta la scena. E’ questo momento di pausa nelle tenebre che io voglio sfruttare per fare arrivare alla massa inerme dell’opinione pubblica il nostro grido di verità e di giustizia. E’ perché questo grido sia abbastanza forte e faccia tremare gli avvoltoi che come ogni anno caleranno in via D’Amelio è necessaria una massa di gente, che, ognuno con la sua agenda rossa levata in altro a simboleggiare la nostra voglia di Giustizia, gridi a questi impostori, a questi sciacalli, la propria rabbia. Ma non si potrà esprimere per questa iniziativa una solidarietà di massima, dire che Palermo è troppo lontana, che non si ha il tempo. E’ troppo spendere un giorno della nostra vita per chi ha dato la nostra vita per noi? Questa non deve essere una manifestazione qualsiasi, deve essere quella scintilla che dovrà provocare un incendio nella massa amorfa di chi non sa, non si rende conto del baratro in cui è precipitato il nostro paese. Da Palermo è cominciato tutto e a partire da Palermo tutto deve cambiare. E’ la nostra ultima occasione o dobbiamo rassegnarci a vivere in un paese di schiavi. E non basterà neanche partecipare, bisognerà che ciascuno di noi si attivi al massimo delle proprie possibilità perché questa manifestazione abbia il massimo della partecipazione e il massimo della risonanza. O sarà ancora una occasione sprecata. E non credo che possiamo permettercene ancora.