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Editoria a pagamento e… il mio outing

Lunedì scorso Lipperatura ha pubblicato la lista degli editori a pagamento e a doppio binario (quegli editori che prevedono il pagamento per una parte delle pubblicazioni). Una decisione che Loredana Lipperini ha preso in seguito alla rimozione della lista decisa dagli amministratori di Writer’s Dream, sito e forum nati su iniziativa di Linda Rando, prima a pubblicare la lista EAP e a subirne le conseguenze.

La quantità di commenti rapidamente accumulati nella pagina di Lipperatura (e altre parallele discussioni, per esempio su Twitter) dimostrano quanto spinoso sia l’argomento, quanto coinvolga gli autori e gli aspiranti tali e cosa possa accadere, scrive Lipperini in un commento, “quando si scoperchia un vaso di questo genere”.

Mi trovo in completo accordo con Loredana Lipperini e con chi sta pubblicando la lista in questo momento, sfidando minacce e querele; penso che la pubblicazione delle liste costituisca una risorsa “estrema” praticata da chi si oppone al velo di silenzio esistente attorno a queste pratiche. Un velo che nasconde troppo spesso business costruiti a spese di autori ingenuamente, o presuntuosamente, inconsapevoli e che inseguono impossibili sogni di successo. Preferibile sarebbe, da parte degli editori – a ciò serve la pubblicazione delle liste –, assumere comportamenti trasparenti e dichiarare quali sono le politiche editoriali adottate nella selezione delle opere per la pubblicazione, se e quali sono le forme di partecipazione al rischio della pubblicazione richieste agli autori. Cito ancora Lipperini:

E non per mettere sotto accusa nessuno, si badi: semplicemente per proporre all’autore una scelta consapevole. Nessuno condanna chi sceglie di pubblicare pagando, né chi decide di chiedere soldi all’esordiente come contributo. Forse, però, è corretto saperlo. [grassetti miei]

Per contribuire a questa “operazione trasparenza” vorrei allora iniziare dal racconto dell’esperienza personale che so assai diffusa nell’editoria di saggistica in Italia, augurandomi che altri editori attivi in questo ambito vogliano partecipare alla discussione.

La saggistica dedicata alla ricerca in Italia vende cifre irrisorie e far quadrare i bilanci è un’impresa più vicina all’impossibile che al difficile. Trattandosi di un dato assodato, autori, editori, traduttori e ogni figura coinvolta nella produzione di questo tipo di libri considera normale adoperarsi per finanziare l’edizione di opere che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere pubblicate.

I casi più frequenti riguardano le opere tradotte, le opere prime, gli atti di convegni e i libri collettanei, le riviste.

Opere tradotte
I costi di produzione di una buona edizione di un testo scientifico prevedono, oltre al pagamento dei diritti di traduzione all’editore dell’edizione originale, i costi di traduzione e (eventualmente) di revisione e commento al testo, in vista della sua presentazione ai lettori italiani. A questi si sommano tutti i costi standard previsti per qualsiasi pubblicazione (editing e correzione di bozze, carta e stampa, promozione e distribuzione, pubblicità nelle varie forme previste da un ufficio stampa).
Un editore sa che i valori delle vendite della gran parte di queste pubblicazioni non saranno in grado di coprire i costi di produzione, quindi, fin dall’inizio, si attiva per cercare forme di finanziamento che consentano l’operazione. Le più frequenti tra queste sono:

  • contributi alla traduzione ottenuti dai Ministeri della Cultura dei Paesi in cui è stata pubblicata l’opera originale (in Europa, Francia e Spagna costituiscono i Paesi più attivi in tal senso);
  • contributi alla traduzione elargiti dall’Unione Europea per contribuire alla circolazione delle lingue e delle idee (purtroppo, da alcuni anni, quasi annullati per la saggistica e orientati ai Paesi di più recente ingresso nella UE);
  • contributi alla traduzione (o all’edizione) devoluti da un dipartimento universitario interessato alla pubblicazione dell’opera in questione.

Opere prime
Se le vendite sono mediamente basse per autori collaudati e docenti affermati (con ampio seguito di studenti e colleghi “amici”), diventano risibili per il ricercatore alla prima prova. E questo è un dato indipendente, tengo a sottolinearlo, dalla qualità dell’opera: più e più volte ho deciso la pubblicazione di meritevoli (a detta di molti) opere di giovani autori che hanno venduto (in anni di vita del libro) poche centinaia di copie. Quindi l’uso prevede, in questi casi, che un dipartimento (o, a volte, lo stesso ricercatore) si faccia carico di parte dei costi di edizione, oltre all’impegno a utilizzare il volume nei corsi propri e dei docenti amici, “obbligando” gli studenti ad acquistarlo. Naturalmente ciò avviene per i dipartimenti e i docenti che possono permetterselo (sempre meno, vedi tagli all’università), ma per molti pubblicare, e farlo con una casa editrice accreditata (vedi all’ambigua voce: editori che pesano di più nelle valutazioni concorsuali) significa sommare un mattone alle possibilità di carriera accademica. Qui si aprirebbe il capitolo, tra il desolante e l’orrido, riguardante le forme di reclutamento nell’Università: lo rinvio a una prossima puntata, ché pagina (ancorché virtuale) e stomaco (benché barbuto) hanno i loro limiti.

Atti e volumi collettanei
Qui non c’è discussione: si pubblicano solo opere che portino in dote all’editore un finanziamento. E ciò vale anche quando i testi vengono editati e rivisti dai curatori, quando gli autori (praticamente sempre) cedono a titolo gratuito lo sfruttamento economico del loro saggio, quando il lavoro dell’editore è, cioè, ridotto al minimo indispensabile e gran parte dei suoi costi si concentrano nei passaggi distributivo-commerciali, nonostante si tratti di opere che avranno una distribuzione in libreria irrisoria e la circolazione sarà per lo più basata sull’impegno degli stessi autori (adozioni in corsi, seminari, ecc.).

Riviste scientifiche
Come sopra: non si pubblicano senza un finanziamento su cui contare in partenza. Gli abbonamenti (anche delle più diffuse) si attestano sulle due cifre e sono drasticamente diminuiti con i tagli ai fondi delle biblioteche. La presenza in libreria è una chimera e la circolazione si basa essenzialmente sul passaggio di mano in mano da parte della redazione.

Questo il quadro nel quale opera la gran parte delle case editrici che pubblica “saggistica alta”: quelle opere di saggistica, cioè, dedicate a un pubblico di lettori certamente specialistico ma meritevole di vedere pubblicati i lavori innovativi, quelli che provengono da ambiti linguistici e/o culturali ai margini o fuori dal mainstream, gli studi di settore che aggiungono tasselli, minuti quanto si vuole ma importanti, al patrimonio di conoscenze collettive che in una parola chiamiamo “ricerca”.

È corretto precisare che la gran parte delle case editrici che opera in questo settore, quando pubblica utilizzando i finanziamenti di cui sopra, lo dichiara apertamente: basta prendere uno qualsiasi dei volumi o riviste cui faccio riferimento e aprirlo alla pagina delle gerenze per rinvenire l’indicazione della partecipazione ai costi di edizione.

L’operazione trasparenza, quindi, sembrerebbe inutile. Ma è davvero così? E, soprattutto, si tratta di un meccanismo sano? Ammettiamo che le cose funzionino come da descrizione e che le case editrici dichiarino apertamente la presenza di forme di contributo per l’edizione. Secondo voi, in base a quali criteri sarà più facile ottenere la pubblicazione? Sì, certo, ci sarà, tra gli editori più testardi e attenti alla costruzione del catalogo, una quota di pubblicazioni “a perdere” o che prevedono un rischio maggiore, ma la gran parte delle scelte sarà orientata dalla presenza di un finanziamento, e del finanziamento più consistente.
Tutte le discussioni, in rete e fuori, sull’assenza di una tradizione di University Press in Italia e sull’inesistenza di qualsiasi forma seria di peer review lasciano il tempo che trovano, di fronte a tale scenario che prefigura un solo risultato: la riduzione ai minimi termini di alcune iniziative editoriali e la limitazione della scelta a quelle arricchite da una dote generosa. Questo è lo scenario che mi ha fatto assumere la decisione di interrompere l’attività della Meltemi, non volendo trasformarla in una casa editrice “universitaria” all’italiana, una casa editrice costretta a pubblicare solo i libri finanziati.

Già immagino chi, arrivato fin qui, stia fremendo per non aver letto la parola digitale. Eccoci.
Le pubblicazioni digitali, nelle varie forme in cui sono possibili, dal solo testo, ai pdf agli ebook alle applicazioni (a pagamento e non), sarebbero il naturale sbocco per le ricerche di cui sopra. Ne sono convinta, tanto più per le distorsioni prodotte da un sistema per cui i lettori di tali opere sono di frequente gli stessi produttori e si trovano, quindi, a pagare tre volte: come cittadini, finanziando il luogo in cui quei lavori vengono prodotti, l’università; come ricercatori-autori che, per dare sbocco editoriale al proprio lavoro, devono far pagare ulteriormente l’istituzione in cui operano; come lettori, infine, che acquistano quelle stesse opere, costituendone il pubblico “naturale”.

Ma chiunque abbia a che fare con l’università sa bene che le pubblicazioni digitali non hanno valore a fini concorsuali: semplicemente, non sono contemplate. E infatti, nell’ultimo decennio, sono nate alcune “University Press” su iniziativa di Atenei, di editori o miste che prevedono la pubblicazione on line e la stampa on demand di un numero minimo di copie: tutti i casi di questo tipo che conosco prevedono comunque un pagamento per la pubblicazione, anche per la sola edizione digitale; nessuno dei casi che conosco è dotato di un sistema trasparente di valutazione delle proposte e scelta delle pubblicazioni [edit: felice se riceverò smentite documentate].

Qualcosa, però, inizia a muoversi anche in Italia e, per esempio, si diffondono le riviste scientifiche che usano software open source, sono disponibili secondo canoni open access e adottano forme di valutazione e di peer review riconosciute internazionalmente (un esempio eccellente in Italia è la piattaforma Sirio dell’Università di Torino). Così come si diffondono iniziative di condivisione delle conoscenze aperte e libere, per fare un solo esempio: Oilproject: quasi sempre si tratta di iniziative nate su base volontaria e spesso la loro esistenza condivide la condizione di precarietà permanente di analoghe attività culturali. Chi non vuole pubblicare solo per avere un titolo da spendere per il prossimo concorso, insomma, di strade ne ha in abbondanza e in molti già le percorrono.

Dissenso informato a reti unificate

Ai lettori di questo blog interesserà sapere che ci risiamo: la norma “ammazzablog” infilata nel ddl intercettazioni rischia ancora una volta di essere approvata.
Per promuovere un “dissenso informato”, Valigia blu ha proposto a tutti i blog di unirsi in un post unificato il cui testo (di Bruno Saetta) illustra le posizioni di chi si oppone alla possibile approvazione del provvedimento.
Lo trovate incollato qui sotto.

 

Cosa prevede il comma 29 del ddl di riforma delle intercettazioni, sinteticamente definito comma ammazzablog?

Il comma 29 estende l’istituto della rettifica, previsto dalla legge sulla stampa, a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”, e quindi potenzialmente a tutta la rete, fermo restando la necessità di chiarire meglio cosa si deve intendere per “sito” in sede di attuazione.

Cosa è la rettifica?

La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere di questi media e bilanciare le posizioni in gioco, in quanto nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, questi potrebbero avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie. La rettifica, quindi, obbliga i responsabili dei giornali a pubblicare gratuitamente le correzioni dei soggetti che si ritengono lesi.

Quali sono i termini per la pubblicazione della rettifica, e quali le conseguenze in caso di non pubblicazione?

La norma prevede che la rettifica vada pubblicata entro due giorni dalla richiesta (non dalla ricezione), e la richiesta può essere inviata con qualsiasi mezzo, anche una semplice mail. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, ma ad essa non possono essere aggiunti commenti. Nel caso di mancata pubblicazione nei termini scatta una sanzione fino a 12.500 euro. Il gestore del sito non può giustificare la mancata pubblicazione sostenendo di essere stato in vacanza o lontano dal blog per più di due giorni, non sono infatti previste esimenti per la mancata pubblicazione, al massimo si potrà impugnare la multa dinanzi ad un giudice dovendo però dimostrare la sussistenza di una situazione sopravvenuta non imputabile al gestore del sito.

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?

La rettifica prevista per i siti informatici è quella della legge sulla stampa, per la quale sono soggetti a rettifica tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni ritenute dai soggetti citati nella notizia “lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia, è quindi un criterio puramente soggettivo, ed è del tutto indifferente alla veridicità o meno della notizia pubblicata.

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?

E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica?

La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi sarà il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?

Un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento (e contenuti similari) non dovrebbe essere soggetto a rettifica.

Per la Festa dei pirati, intervista a Loretta Napoleoni

Sabato scorso, di passaggio da Roma, Loretta Napoleoni, economista e tra i massimi esperti mondiali di terrorismo, ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla libertà di Internet che le avremmo posto se avesse partecipato alla Festa dei pirati in programma per sabato 20 al Teatro Capranica a Roma.

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Per chi preferisce leggere, ecco il testo della chiacchierata:

LUISA: Allora, ciao Loretta. Non ti potremo avere con noi alla festa dei pirati, però io sarei molto felice se tu potessi dirci qualcosa soprattutto sul rapporto tra quanto può avvenire in termini di diffusione delle idee in Rete e le prospettive di crescita economica in un territorio. Loretta Napoleoni è un’economista che molti conoscono e che si è anche candidata per partecipare alle primarie per la scelta del governatore o della governatrice per la regione Lazio. Ci sarebbe piaciuto averla tra i protagonisti della Festa dei Pirati il 20 marzo, però non potendola avere le abbiamo chiesto di darci un contributo video.

LORETTA: Dunque, io in questo momento mi trovo in Cina. Quando voi vedrete questo video mi troverò in uno dei paesi che sono all’avanguardia nella cosiddetta lotta contro il copyright, contro le patenti e soprattutto contro il controllo da parte delle autorità dell’internet. Infatti l’internet come ben sappiamo in Cina viene controllata dal governo centrale. Il mio messaggio in un certo senso è abbastanza semplice, è quello che ho portato avanti anche in alcuni dei miei libri, cioè il fatto che noi ci troviamo in un momento di grandissimo cambiamento dove il tipo di censura, il tipo di patenti, di copyright che è stato applicato alla produzione intellettuale, ecco, in questo particolare momento penso che bisogna cominciare a rivedere il concetto stesso di pirateria all’interno dell’internet, ma anche il concetto stesso di che cos’è il copyright. E su questo devo dire che c’è un approccio diverso nei paesi in via di sviluppo e anche nelle economie emergenti nei confronti dell’approccio tradizionale che è un approccio occidentale. In realtà questa forma di copyright è una forma che impedisce loro di svilupparsi perché blocca la trasformazione della cultura in un prodotto accessibile a tutti. Hanno quindi un concetto completamente diverso anche della produzione intellettuale, e della cosiddetta proprietà intellettuale proprio perché si trovano in una posizione di svantaggio rispetto all’occidente. Sostengono anche che mantenendo questa struttura di copyright, questo tipo di politiche impediscono a questi paesi di svilupparsi. Io devo dire che sono d’accordo su questa cosa: la cultura non può essere messa dentro una scatola, chiusa a chiave, dove solamente una parte del mondo ha questa chiave e quindi solamente una parte del mondo ha accesso. Per questo sono in linea generale positiva alla libera circolazione di idee all’interno della web. Praticamente la web ha dato questa grandissima possibilità a tutto il mondo di poter accedere alle informazioni, però anche al di fuori della web devo dire che sono abbastanza favorevole a una liberalizzazione, ma anche a una riformulazione del copyright che sia più equa nei confronti dei paesi in via di sviluppo e sicuramente che abbia un periodo di tempo in cui il copyright viene controllato molto molto più breve di quello che c’è oggi.

LUISA: Certo, perché tra l’altro quello che si è prodotto in questi anni è una crescita della durata del copyright che a dir la verità non tanto tutela gli Stati, quanto tutela le grandi major produttrici di prodotti multimediali in genere o anche di sapere stampato nel libro. Da questo punto di vista forse potremmo addirittura pensare che proprio internet ci consente oggi delle forme di condivisione oltre che di circolazione della conoscenza che non solo mutano la forma di protezione che scegliamo, che ciascun autore più scegliere di dare alla propria opera, ma cambiano proprio il modo con cui produciamo il sapere, quasi tornando a una forma di intervento sul testo come quella che producevano gli amanuensi quando, ricopiando il testo di un altro, normalmente introducevano anche delle modifiche, poiché non c’era alcuna forma di tutela di quel diritto d’autore che non fosse il citare la fonte dalla quale quel sapere proveniva. Però io vorrei farti un’altra domanda ancora più specifica. Da più parti, soprattutto in Italia, per giustificare una serie di leggi e di procedimenti normativi che mirano a censurare e chiudere la possibilità di utilizzazione di internet è stata addotta a giustificazione per l’adozione di questi provvedimenti la lotta al terrorismo, o comunque la lotta più un generale alle forme di violenza che attraverso la rete si possono diffondere. Secondo te questo è possibile?

LORETTA: Secondo me la censura sull’internet giustificata sulla base che i terroristi possano essere indottrinati e preparati per attacchi terroristici nell’internet è un argomento abbastanza debole. Questo perché se noi guardiamo dall’11 settembre in poi il diffondersi di questo tipo di terrorismo nato attraverso la web in cui il terrorista fai-da-te impara sulla web come fare le bombe e via dicendo, ci rendiamo conto che tutti questi attacchi che questi individui hanno portato avanti non sono andati in porto. Non sono andati in porto perché manca proprio la professionalità. L’internet è un mezzo secondo me fantastico per raggiungere chiunque, anche per imparare tantissimo, ma fare il terrorista non è facile, ci vuole una formazione professionale che è molto simile alla formazione professionale di un soldato professionista. Per cui immaginate se noi potremmo riuscire usando solamente l’internet a preparare i futuri quadri del nostro esercito. Sarebbe assurda questa cosa. Lo stesso concetto può essere applicato al terrorista. Quindi io credo che questo argomento sia un argomento di grossa debolezza, però chiaramente fa molta presa perché c’è sempre questa paura del terrorista dall’11 settembre in poi e quindi è un elemento che può essere facilmente manipolato, è un elemento di grossa propaganda. Però se vogliamo parlare seriamente, ancora oggi un attentato andato in porto fatto dalla A alla Z sulla web non esiste.

LUISA: Senti Loretta, e che cosa pensi di questi nuovi strumenti che sono stati adottati e quasi contestualmente ridicolizzati da alcuni membri del partito pirata tedesco, appunto strumenti di controllo e di individuazione di eventuali terroristi negli aeroporti? Pensi che possano essere efficaci oppure no?

LORETTA: Io penso che una vera politica antiterrorista debba essere una politica che non blocca l’attacco nel momento in cui sta per compiersi. Noi siamo fino ad oggi stati molto fortunati che questi terroristi non abbiano la professionalità dei vecchi terroristi, ad esempio, dell’IRA, o dell’ETA, ma anche delle stesse Brigate Rosse. Se questi individui avessero oggi come oggi la possibilità di avere dei campi di addestramento, di avere una rete, ma non una rete di internet, una rete attraverso la quale indottrinarsi, attraverso la quale creare questa loro professionalità io penso che noi veramente non sapremmo cosa fare. Però in realtà, se vogliamo andare all’origine del problema, certamente ciò non avviene all’aeroporto. Bisognerebbe trovare le cause, le ragioni e il gruppo che c’è dietro. Ma il gruppo non c’è, è questo il problema. Il gruppo non c’è, ci sono individui, molto spesso mitomani, isolati, che attraverso la web decidono di intraprendere quest’avventura terrorista. Quindi ci troviamo in una situazione totalmente diversa da quella del passato.

LUISA: Insomma, secondo te certamente internet non è il veicolo fondamentale né di formazione di questi gruppi, né può essere l’oggetto, lo strumento fondamentale da colpire per azzerare queste possibilità, per sgominare questi gruppi e queste squadre che agiscono nel mondo. Bene, allora ti ringraziamo.

LORETTA: Grazie a voi.

LUISA: Stai bene in Cina e osservala per noi.

LORETTA: Ok. Grazie, arrivederci.

I pirati e i presunti difensori degli autori

Seminare la paura è una pratica alla quale da qualche tempo ci hanno abituato governanti e potenti che avrebbero invece il dovere di occuparsi della tutela dei diritti di tutti.

E’ così che, alla notizia della Festa dei pirati che abbiamo organizzato per sabato 20 marzo al Teatro Capranica a Roma, Tullio Camiglieri (indovinate per chi ha lavorato questo signore?) Coordinatore del Centro Studi (ma de che? sfido chiunque a trovare nel blog uno studio purchessia) per la difesa dei diritti degli autori e della libertà di informazione, grida al lupo attribuendoci la responsabilità di gettare sulla strada “centinaia di migliaia di persone impiegate nel cinema, nell’editoria, nei giornali e nell’industria musicale”.

Sempre la solita storia, si ergono a difensori dei diritti di qualcuno (ma come? cosa ha fatto il Centro Studi per difendere gli autori e la libertà di informazione?) per impedire che si discuta e si trovino soluzioni per tutelare un diritto di tutti: quello alla conoscenza, al libero scambio del sapere e delle informazioni senza pagare ingiusti balzelli (“equo” compenso?) o ricalcare per il web norme superate anche fuori.

“Senza i ricavi non ci saranno più investimenti e non avrà più senso destinare risorse economiche alla realizzazione di un film, di un documentario, di un nuovo giornale o di una produzione musicale”, dice il prode, con buona pace di tutti coloro che ogni giorno investono risorse, creatività e intelligenze producendo e condividendo contenuti attraverso Internet.

Faccia un giro al centro di Roma, sabato prossimo, dottor Camiglieri: se non altro avrà modo di raccogliere qualche interessante ricerca ed esperienza per nutrire il suo tristemente nudo blog.

Sulla Festa dei pirati, per saperne di più, andate sul gruppo di Facebook e condividete l’evento.

Qui un’intervista che mi ha fatto il blogger e amico Damiano Zito il giorno della Festa dei Pirati

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Pirati a Roma per la Rete libera

Il 20 marzo il Teatro Capranica a Roma, dalle 11 alla notte, sarà il luogo per incontri, discussioni, divertimento con blogger, attivisti e artisti della Rete: per un giorno, l’innovazione e la creatività caleranno tra gli stucchi e le colonne di un vecchio palazzo al centro della cittadella del potere, nella Festa dei pirati.

Per un giorno, difensori della libertà di conoscenza, untori di mp3, politici, hacker e amministratori si confronteranno sulle modalità con le quali avviene oggi la produzione e condivisione del sapere. Un sapere profondamente cambiato dalle tecnologie digitali e con il quale tutti dobbiamo confrontarci.

Per un giorno, proveremo a discutere di come siano cambiatati la produzione e il consumo di cultura, di quanto siano obsolete (e di come risultino inefficaci) le norme che regolano il diritto d’autore nel mondo dei bit, di come superare il divario culturale, oltre che di accesso, al sapere digitale, di come respingere al mittente ogni tentativo di limitare la libertà che si esprime attraverso la Rete.

Per un giorno, protagonisti sulla scena non saranno l’ennesimo articolo sui pericoli virtuali o la denuncia di qualche etichetta musicale a difesa dei propri interessi, ma la molteplicità delle produzioni indipendenti, la ricchezza del mix e del remix, la passione del download e dell’upload, le mille gioie della rete.

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Le regole elettorali e la lista del Pdl nel Lazio

La dinamica dei fatti è ormai chiara, come documentato da varie fonti (Corriereweb, ilsalvagente): la documentazione completa per la presentazione della lista del Pdl alle prossime elezioni regionali nella provincia di Roma è arrivata in ritardo rispetto al termine ultimo fissato alle 12.00 di ieri, 27 febbraio 2010.

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Non mi appassiona conoscere le ragioni per le quali il maggiore partito che sostiene la candidata Polverini sia incorso in tale pasticcio: incapacità, sprezzo delle regole, regolamento di conti interno.

Mi pare anche irrilevante discutere ora sulla legittimità o funzionalità delle regole che presiedono il corretto esercizio di un diritto democratico come le libere elezioni. Queste regole esistono, non si possono cambiare in corso d’opera e tutti siamo vincolati a rispettarle, anche coloro che le criticano.

Stupisce perciò l’appello rivolto da Renata Polverini e Gianni Alemanno al Presidente Napolitano, dove si sostiene: “riteniamo che vada in ballo la democrazia se si ostacola la presentazione di una lista che falserebbe tutti i risultati delle elezioni regionali”. Qua nessuno ha ostacolato nulla e ridurre le regole di presentazione delle liste a un “fatto burocratico” è un sintomo pericoloso di arroganza che una candidata alla presidenza della regione dovrebbe evitare.

Centinaia di migliaia di giovani in Italia presentano ogni anno pile di documenti per partecipare a concorsi nei quali ripongono, spesso a ragione, men che esigue speranze; tante imprese oneste partecipano a gare delle quali si conoscono i vincitori prima che vengano aperte le buste delle offerte; milioni di cittadini si sottopongono al calvario delle domande a uffici pubblici privi di siti internet e ostili all’autocertificazione. Ma lo facciamo, rispettosamente e in silenzio, anche quando ci vorrebbe una rivolta popolare.

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Da più parti si invoca già una “soluzione politica” che non escluda il Pdl dalla competizione elettorale nel Lazio. Io preferisco battermi e vincere gli avversari sui programmi e gli impegni che ogni partito e candidato assume con gli elettori.

Ma facciano attenzione i partiti (e conservi la sua autonomia di giudizio l’Ufficio centrale regionale del Lazio presso la Corte d’Appello) a non sommare un pasticcio a un altro: la disaffezione di tante persone verso i partiti e la politica risulterebbe ulteriormente motivata da un escamotage che ancora una volta salverebbe il più forte.

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