categorie: libri: istruzioni per l’uso
Prima di tutto, fiu! Ce l’abbiamo fatta. Se ci siamo riusciti, è per l’impegno davvero straordinario che ha unito studenti e blogger, durante la fase preparatoria, in una sarabanda di comunicazioni creative e appassionate che hanno continuato ad arricchire e scaldare il clima anche il 27 e il 28.
A tale impegno si è sommato il supporto del Cepell (con la stampa di locandine e pieghevoli) e dell’Università di Roma Tor Vergata (con la disponibilità delle strutture). Sarebbe stato utile un aiuto maggiore, ha ragione Christian Raimo, ma forse avercela fatta così, essere riusciti a convincere i relatori della bontà dell’iniziativa e che valesse la pena venire (in gran parte a proprie spese) fino a Tor Vergata (di questo, lo so, porterò la colpa a vita…), avere raccolto (tra crowdfunding e iscrizioni al workshop) quanto è servito a coprire le minime spese organizzative: tutto questo penso abbia un valore che possiamo, d’ora in avanti, “capitalizzare”. E per la prossima edizione speriamo di trovare una maggiore disponibilità a sostenere la realizzazione di un appuntamento il cui interesse è manifesto, se non altro per le persone arrivate fino a Tor Vergata (oltre 80, in un sabato pomeriggio estivo e in mezzo a un lungo ponte), per non parlare di tutte quelle che hanno seguito lo streaming (800 contatti e 50 collegamenti contestuali in media per tutta la giornata – grazie a Rai Letteratura).
Cosa possiamo dire acquisito dalle due giornate?
- Gli editori sono ancora largamente assenti dal dibattito sul digitale. Dico proprio il dibattito, quello che abbiamo tentato a Librinnovando, non il semplice misurarsi, chi più chi meno, chi meglio chi peggio, con la conversione dei libri in ebook. Mercato ridotto, paura della pirateria, fase di crisi in cui è difficile investire risorse in alcunché, sono alcune delle ragioni principali. Non se ne esce, però: se non si avvia un’azione diffusa, che solleciti intelligenze e moltiplichi soluzioni innovative, la partita rischiano di giocarla, in beata solitudine, i big del digitale. Altro che oligopoli nostrani, allora.
- Le sperimentazioni ci sono, ne abbiamo conosciute e fatte conoscere alcune, ma sono ancora davvero troppo poche e, per sovrappiù, anziché costituire dei fari, vengono scrutate con diffidenza e spesso supponenza. Il liceo Lussana o piattaforme come Oilproject andrebbero prese a esempio e utilizzate, oggi, non domani, da istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado: si può fare, e un ruolo può averlo proprio l’università (nel supporto alla formazione degli insegnanti, per esempio: lo organizziamo un gruppo di docenti, motivati e preparati, che si faccia carico, nel proprio territorio, di interventi di ausilio all’autoformazione degli insegnanti?). Avviare simili iniziative darebbe una scossa agli editori attivi nella scolastica, obbligati a ripensarsi all’interno di un processo non più diretto unicamente dalle loro scelte.
- Anche le biblioteche hanno i loro fiori all’occhiello: non sempre i costi delle soluzioni innovative sono proibitivi, a mettersi di traverso sono (quasi) sempre le resistenze al cambiamento. Ma come insegnano le esperienze positive che si stanno iniziando a compiere anche in Italia, pure questi presidi culturali possono trovare nel digitale un amico, piuttosto che un avversario. Potrebbero essere i luoghi nei quali avviare una prima alfabetizzazione all’uso delle tecnologie digitali: sarebbe così peregrino, se anziché mandare tanti studenti tirocinanti in aziende dove finiscono a fare fotocopie li “utilizzassimo” per simili campagne?
- Sì, gli esempi fin qui partono dalla constatazione che le risorse scarseggiano e molto lavoro dovrebbe essere realizzato in forma volontaria, gratuita o parzialmente tale. È una questione emersa anche durante la discussione sull’autopubblicazione. Sgombrato l’equivoco, sempre presente e fuorviante, che la strada del self publishing possa costituire, da sola, l’alternativa alle storture dell’editoria tradizionale, quali sono i casi che possiamo ritenere virtuosi? Piattaforme come Smashwords o, meglio ancora, esempi di scrittura collaborativa e di peer review sociale che si fanno strada nella ricerca scientifica? Forme di cooperazione alla stesura e revisione dei testi che (la butto lì), in un sistema di scambi non monetari, faccia acquisire “punti”, in autorevolezza riconosciuta e in reciproche prestazioni? Insomma, se il self publishing vuole proporsi come una possibile strada, deve dichiaratamente uscire (e far uscire gli autori più ingenui) dall’imbroglio che chiunque abbia una storia meriti di vederla pubblicata. Diverso ancora è il caso di Barabba, ma loro “fanno un ibuc con un clic” e non si può che applaudirli.
- E la cura editoriale? Il lavoro di chi vi si applica? Come garantire livelli di qualità nella funzione editoriale (tradizionale o digitale) se i redattori sono in posizione sempre più precaria, se sosteniamo che le case editrici non sono il luogo della selezione di qualità e se pensiamo che il volontariato (sempre che si abbia un altro lavoro per mangiare) sia la migliore garanzia per ottenerla?
Sono solo primi spunti che mi premeva annotare; riflessioni, critiche e proposte stanno arrivando da tanti e in tante forme, dopo le due giornate, che sarà necessario aggiornare presto il catalogo.
Qui, se non ne avete abbastanza, trovate le slide della mia breve apertura del workshop venerdì 27 (cliccate sull’immagine per aprire il link):
Qualche mese fa Precariementi mi ha chiesto di rispondere ad alcune domande sugli stage non retribuiti: l’intervista la trovate qui.
Oggi segnalo l’iniziativa di Generazione TQ che mira alla raccolta di informazioni sul lavoro editoriale attraverso un questionario che invito a compilare e a diffondere perché sia completato da molte persone.
Conoscere le condizioni di coloro che lavorano, a vario titolo, nelle case editrici mi pare irrinunciabile, come scrivono gli estensori del questionario,
per dire la nostra con cognizione di causa e per meglio organizzare azioni che davvero possano incidere sullo stato di cose presente.
Il Salone Monumentale della Biblioteca Casanatense suggerisce, già dal nome, l’eccezionalità della cornice in cui, venerdì scorso, è stata presentata l’indagine L’Italia dei libri. Un anno, le stagioni, due trimestri a confronto (qui il pdf con la sintesi), eseguita da Nielsen su incarico del Centro per il libro e la lettura.
L’indagine era attesa da molti, trattandosi della prima a uscire sul 2011, anno tanto tragico per il mondo dei libri quanto finora minimizzato, nonostante l’allarme di molti operatori del settore e di quanti condividono la consapevolezza che in Italia si legge troppo poco e si legge sempre meno.
Se la scelta dei luoghi ha un senso, il 23 marzo è apparsa quanto mai azzeccata: la solennità un po’ cupa della sala, il pubblico silenzioso e mesto (anche per l’età media, ahimè), lo sciamare via con minimi indugi e commenti dopo la conclusione. Non è valso, a scongiurare il clima, il bislacco tentativo di Gian Arturo Ferrari di indorare la pillola, leggendo inizialmente nei dati la buona novella che in Italia si son fatti passi da gigante: dall’Unità a oggi si legge assai di più! Appena le slide hanno illustrato la solita triste fotografia con metà della popolazione asserragliata nel quasi analfabetismo di chi non legge nemmeno un libro all’anno, vocii e sorrisi a mezza bocca hanno attraversato la sala: perché menare il can per l’aia? Lo si è capito dopo.
I dati sulla lettura, presentati nelle slide che trovate sotto, confermano una situazione nota da anni, con lievissime modificazioni rispetto al passato: leggono le donne più degli uomini, i giovani più degli ultra sessantacinquenni, i laureati più di chi ha titoli di studio inferiori, chi vive al Centro Nord più degli abitanti del Sud.
Si conferma il numero esiguo del gruppo che l’Istat definisce lettori forti: 5,8 milioni di persone maggiori di 14 anni che hanno letto tra i 9 e i 12 libri nel 2011 e che, da sole, hanno messo insieme il 58% dei libri letti in Italia l’anno scorso. Questo, a spanne; io ci tornerò su nelle mie lezioni, perché qualche informazione supplementare su cui riflettere c’è, intanto potete leggere le slide per farvi un’idea più precisa.
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La parte interessante della conferenza è iniziata quando Ferrari ha illustrato i comportamenti relativi alla lettura e all’acquisto nell’ultimo trimestre del 2011, mettendoli in relazione con i dati dello stesso periodo del 2010.
[Va aperta una parentesi, qui, poiché i dati, se si limitano a fotografare una situazione senza coglierne le serie storiche, sono monchi, privi di profondità e dell’informazione essenziale sui processi attraversati dai fenomeni rilevati. Manco a dirlo, sui dati che riguardano la lettura e l’industria del libro, siamo campioni nel non aver saputo (o voluto) lavorare per produrne di coerenti con continuità, a eccezione dell’indagine annuale dell’Istat che dal 1993 censisce i comportamenti di circa 20 mila famiglie campione su diversi aspetti della vita quotidiana tra cui la lettura. I dati Istat sono integralmente pubblici e possono essere elaborati da chiunque, cosa che ad esempio fa l’Aie con il suo Rapporto annuale. Questa indagine realizzata da Nielsen per conto del Cepell utilizza parametri diversi, rispetto ai quali non abbiamo possibilità di confronti retroattivi, se non con le stesse indagini svolte da Nielsen da due anni a questa parte. Rispetto all’indagine Istat è diversa la metodologia di ricerca (telematica per Nielsen, con questionario per Istat), è diverso il campione (3.000 famiglie contro 20.000), sono diverse le fasce d’età prese in considerazione (maggiori di 6 anni contro maggiori di 14 anni), Nielsen analizza la lettura e l’acquisto di libri non scolastici, mentre Istat li considera tutti. Le due indagini fondamentali prodotte da (o per conto di) istituzioni pubbliche sulla lettura e i libri sono di fatto incomparabili. Inoltre, sulle metodologie utilizzate, Nielsen non si è mai profusa in spiegazioni e non ha mai rilasciato i dati integralmente, ma solo attraverso le proprie elaborazioni. Chiusa la parentesi e andiamo avanti così.]Dunque, come sono i dati dell’ultimo trimestre 2011 comparati con quelli del 2010? Ferrari ha usato la parola “catastrofici“, abbandonando i toni edulcorati di inizio conferenza. A ragione: tra coloro che hanno letto almeno 3 libri nel trimestre nel 2011 si rileva un calo del 18% sul 2010; tra gli acquirenti di almeno 3 libri, nello stesso trimestre, il calo arriva al 20%. Ma se calano lettori e acquirenti “forti”, calano anche i “deboli”: rispettivamente del 6 e del 10%. Quello che nel settore tutti sapevano già sulla propria pelle (chiudono le librerie, spariscono o vengono acquisiti marchi editoriali, il lavoro dei collaboratori si fa vieppiù precario e mal pagato) è stato pubblicamente reso noto.
E allora? Cosa pensa di fare il Centro per il libro e la lettura?, chiedono Francesca Santarelli del Tropico del libro e un altro partecipante alla conferenza stampa. “Nulla”, risponde Ferrari, dichiarando che competenza del Cepell è fotografare una situazione, non cambiarla. Sconcerto in sala, soprattutto nei visi di persone che al Cepell lavorano e che qualcosa, invece, cercano di farla per realizzare una delle funzioni istituzionali del Centro: promuovere la diffusione del libro e della lettura. Evidentemente, la visione che Ferrari ha del Cepell e del modo di dirigerlo è un’altra, rintracciabile, per esempio, nella decisione di eliminare una manifestazione collaudata come Ottobre piovono libri ricominciando da capo il lavoro con il lancio del Maggio dei libri (citato di sfuggita da Ferrari nella sua presentazione, benché la manifestazione sia alle porte).
Così, anche le scelte metodologiche e di merito compiute da Nielsen nella realizzazione dell’indagine appaiono scarsamente orientate a ricostruire con pazienza i dati sui lettori e sui libri e molto più, come scrive Christian Raimo su minima et moralia, a offrire rapide risposte agli uffici commerciali dei gruppi editoriali. D’altra parte, se Nielsen ha fatto il suo mestiere, proponendo quel set di domande sui libri e la lettura al campione di famiglie che costituiscono il suo Panel Consumer, il Cepell deve aver condiviso tale orientamento (tanto che l’insistenza sull’avere lautamente pagato la ricerca, più che un lamento è sembrato un vanto).
La mia impressione è che occorra ripensare profondamente obiettivi e strumenti, sapendo che la situazione è drammatica e peggiora di anno in anno. Si potrebbe meglio riflettere sulle tipologie di indagine, affidarle a istituti di ricerca pubblici anziché a società di indagini di mercato private, si dovrebbero stabilire verifiche pre e post ricerca e, infine, vincolare i realizzatori di indagini pagate con risorse dei cittadini a pubblicare i dati in formato aperto e accessibile a tutti. È possibile che in tal modo si riescano a coinvolgere nelle attività di ricerca ed elaborazione altri soggetti (università, biblioteche, fondazioni) e che dai dati più facilmente scaturiscano ipotesi sulle strategie per invertire le tendenze; è persino possibile che così facendo parte delle risorse destinate alla raccolta dei dati possano essere dirottate sulle politiche attive, restituendo, per esempio, un po’ di fiato alle biblioteche. Un lavoro di lunga lena e minuto, fatto di persone che iniziano a parlare dei libri che leggono, di quali scelgono e perché, come suggeriva ieri Stefano Bartezzaghi, piuttosto che di spot (sempre lautamente pagati, si suppone), in cui l’invito alla lettura suona come l’ennesimo richiamo retorico, mancando ancora una volta l’obiettivo, implicitamente ammettendo la resa.
Durante la conferenza stampa ripensavo al discorso di insediamento di Ferrari, quando contrappose il Centro per il libro e la lettura con l’attività dell’analogo Centre National du Livre francese (a ciascuno il compito di verificare, anche solo da uno sguardo al sito, la quantità e varietà di iniziative messe in campo dal CNL, o anche dal Plan de fomento de la lectura avviato in Spagna nel 2004). Siamo il Paese dei cento campanili, decentreremo il Centro nel territorio e non ci arroccheremo a Roma, affermò il neo presidente del Cepell. Mi era sembrata una buona idea, ripartiamo da lì.
Lunedì scorso Lipperatura ha pubblicato la lista degli editori a pagamento e a doppio binario (quegli editori che prevedono il pagamento per una parte delle pubblicazioni). Una decisione che Loredana Lipperini ha preso in seguito alla rimozione della lista decisa dagli amministratori di Writer’s Dream, sito e forum nati su iniziativa di Linda Rando, prima a pubblicare la lista EAP e a subirne le conseguenze.
La quantità di commenti rapidamente accumulati nella pagina di Lipperatura (e altre parallele discussioni, per esempio su Twitter) dimostrano quanto spinoso sia l’argomento, quanto coinvolga gli autori e gli aspiranti tali e cosa possa accadere, scrive Lipperini in un commento, “quando si scoperchia un vaso di questo genere”.
Mi trovo in completo accordo con Loredana Lipperini e con chi sta pubblicando la lista in questo momento, sfidando minacce e querele; penso che la pubblicazione delle liste costituisca una risorsa “estrema” praticata da chi si oppone al velo di silenzio esistente attorno a queste pratiche. Un velo che nasconde troppo spesso business costruiti a spese di autori ingenuamente, o presuntuosamente, inconsapevoli e che inseguono impossibili sogni di successo. Preferibile sarebbe, da parte degli editori – a ciò serve la pubblicazione delle liste –, assumere comportamenti trasparenti e dichiarare quali sono le politiche editoriali adottate nella selezione delle opere per la pubblicazione, se e quali sono le forme di partecipazione al rischio della pubblicazione richieste agli autori. Cito ancora Lipperini:
E non per mettere sotto accusa nessuno, si badi: semplicemente per proporre all’autore una scelta consapevole. Nessuno condanna chi sceglie di pubblicare pagando, né chi decide di chiedere soldi all’esordiente come contributo. Forse, però, è corretto saperlo. [grassetti miei]
Per contribuire a questa “operazione trasparenza” vorrei allora iniziare dal racconto dell’esperienza personale che so assai diffusa nell’editoria di saggistica in Italia, augurandomi che altri editori attivi in questo ambito vogliano partecipare alla discussione.
La saggistica dedicata alla ricerca in Italia vende cifre irrisorie e far quadrare i bilanci è un’impresa più vicina all’impossibile che al difficile. Trattandosi di un dato assodato, autori, editori, traduttori e ogni figura coinvolta nella produzione di questo tipo di libri considera normale adoperarsi per finanziare l’edizione di opere che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere pubblicate.
I casi più frequenti riguardano le opere tradotte, le opere prime, gli atti di convegni e i libri collettanei, le riviste.
Opere tradotte
I costi di produzione di una buona edizione di un testo scientifico prevedono, oltre al pagamento dei diritti di traduzione all’editore dell’edizione originale, i costi di traduzione e (eventualmente) di revisione e commento al testo, in vista della sua presentazione ai lettori italiani. A questi si sommano tutti i costi standard previsti per qualsiasi pubblicazione (editing e correzione di bozze, carta e stampa, promozione e distribuzione, pubblicità nelle varie forme previste da un ufficio stampa).
Un editore sa che i valori delle vendite della gran parte di queste pubblicazioni non saranno in grado di coprire i costi di produzione, quindi, fin dall’inizio, si attiva per cercare forme di finanziamento che consentano l’operazione. Le più frequenti tra queste sono:
- contributi alla traduzione ottenuti dai Ministeri della Cultura dei Paesi in cui è stata pubblicata l’opera originale (in Europa, Francia e Spagna costituiscono i Paesi più attivi in tal senso);
- contributi alla traduzione elargiti dall’Unione Europea per contribuire alla circolazione delle lingue e delle idee (purtroppo, da alcuni anni, quasi annullati per la saggistica e orientati ai Paesi di più recente ingresso nella UE);
- contributi alla traduzione (o all’edizione) devoluti da un dipartimento universitario interessato alla pubblicazione dell’opera in questione.
Opere prime
Se le vendite sono mediamente basse per autori collaudati e docenti affermati (con ampio seguito di studenti e colleghi “amici”), diventano risibili per il ricercatore alla prima prova. E questo è un dato indipendente, tengo a sottolinearlo, dalla qualità dell’opera: più e più volte ho deciso la pubblicazione di meritevoli (a detta di molti) opere di giovani autori che hanno venduto (in anni di vita del libro) poche centinaia di copie. Quindi l’uso prevede, in questi casi, che un dipartimento (o, a volte, lo stesso ricercatore) si faccia carico di parte dei costi di edizione, oltre all’impegno a utilizzare il volume nei corsi propri e dei docenti amici, “obbligando” gli studenti ad acquistarlo. Naturalmente ciò avviene per i dipartimenti e i docenti che possono permetterselo (sempre meno, vedi tagli all’università), ma per molti pubblicare, e farlo con una casa editrice accreditata (vedi all’ambigua voce: editori che pesano di più nelle valutazioni concorsuali) significa sommare un mattone alle possibilità di carriera accademica. Qui si aprirebbe il capitolo, tra il desolante e l’orrido, riguardante le forme di reclutamento nell’Università: lo rinvio a una prossima puntata, ché pagina (ancorché virtuale) e stomaco (benché barbuto) hanno i loro limiti.
Atti e volumi collettanei
Qui non c’è discussione: si pubblicano solo opere che portino in dote all’editore un finanziamento. E ciò vale anche quando i testi vengono editati e rivisti dai curatori, quando gli autori (praticamente sempre) cedono a titolo gratuito lo sfruttamento economico del loro saggio, quando il lavoro dell’editore è, cioè, ridotto al minimo indispensabile e gran parte dei suoi costi si concentrano nei passaggi distributivo-commerciali, nonostante si tratti di opere che avranno una distribuzione in libreria irrisoria e la circolazione sarà per lo più basata sull’impegno degli stessi autori (adozioni in corsi, seminari, ecc.).
Riviste scientifiche
Come sopra: non si pubblicano senza un finanziamento su cui contare in partenza. Gli abbonamenti (anche delle più diffuse) si attestano sulle due cifre e sono drasticamente diminuiti con i tagli ai fondi delle biblioteche. La presenza in libreria è una chimera e la circolazione si basa essenzialmente sul passaggio di mano in mano da parte della redazione.
Questo il quadro nel quale opera la gran parte delle case editrici che pubblica “saggistica alta”: quelle opere di saggistica, cioè, dedicate a un pubblico di lettori certamente specialistico ma meritevole di vedere pubblicati i lavori innovativi, quelli che provengono da ambiti linguistici e/o culturali ai margini o fuori dal mainstream, gli studi di settore che aggiungono tasselli, minuti quanto si vuole ma importanti, al patrimonio di conoscenze collettive che in una parola chiamiamo “ricerca”.
È corretto precisare che la gran parte delle case editrici che opera in questo settore, quando pubblica utilizzando i finanziamenti di cui sopra, lo dichiara apertamente: basta prendere uno qualsiasi dei volumi o riviste cui faccio riferimento e aprirlo alla pagina delle gerenze per rinvenire l’indicazione della partecipazione ai costi di edizione.
L’operazione trasparenza, quindi, sembrerebbe inutile. Ma è davvero così? E, soprattutto, si tratta di un meccanismo sano? Ammettiamo che le cose funzionino come da descrizione e che le case editrici dichiarino apertamente la presenza di forme di contributo per l’edizione. Secondo voi, in base a quali criteri sarà più facile ottenere la pubblicazione? Sì, certo, ci sarà, tra gli editori più testardi e attenti alla costruzione del catalogo, una quota di pubblicazioni “a perdere” o che prevedono un rischio maggiore, ma la gran parte delle scelte sarà orientata dalla presenza di un finanziamento, e del finanziamento più consistente.
Tutte le discussioni, in rete e fuori, sull’assenza di una tradizione di University Press in Italia e sull’inesistenza di qualsiasi forma seria di peer review lasciano il tempo che trovano, di fronte a tale scenario che prefigura un solo risultato: la riduzione ai minimi termini di alcune iniziative editoriali e la limitazione della scelta a quelle arricchite da una dote generosa. Questo è lo scenario che mi ha fatto assumere la decisione di interrompere l’attività della Meltemi, non volendo trasformarla in una casa editrice “universitaria” all’italiana, una casa editrice costretta a pubblicare solo i libri finanziati.
Già immagino chi, arrivato fin qui, stia fremendo per non aver letto la parola digitale. Eccoci.
Le pubblicazioni digitali, nelle varie forme in cui sono possibili, dal solo testo, ai pdf agli ebook alle applicazioni (a pagamento e non), sarebbero il naturale sbocco per le ricerche di cui sopra. Ne sono convinta, tanto più per le distorsioni prodotte da un sistema per cui i lettori di tali opere sono di frequente gli stessi produttori e si trovano, quindi, a pagare tre volte: come cittadini, finanziando il luogo in cui quei lavori vengono prodotti, l’università; come ricercatori-autori che, per dare sbocco editoriale al proprio lavoro, devono far pagare ulteriormente l’istituzione in cui operano; come lettori, infine, che acquistano quelle stesse opere, costituendone il pubblico “naturale”.
Ma chiunque abbia a che fare con l’università sa bene che le pubblicazioni digitali non hanno valore a fini concorsuali: semplicemente, non sono contemplate. E infatti, nell’ultimo decennio, sono nate alcune “University Press” su iniziativa di Atenei, di editori o miste che prevedono la pubblicazione on line e la stampa on demand di un numero minimo di copie: tutti i casi di questo tipo che conosco prevedono comunque un pagamento per la pubblicazione, anche per la sola edizione digitale; nessuno dei casi che conosco è dotato di un sistema trasparente di valutazione delle proposte e scelta delle pubblicazioni [edit: felice se riceverò smentite documentate].
Qualcosa, però, inizia a muoversi anche in Italia e, per esempio, si diffondono le riviste scientifiche che usano software open source, sono disponibili secondo canoni open access e adottano forme di valutazione e di peer review riconosciute internazionalmente (un esempio eccellente in Italia è la piattaforma Sirio dell’Università di Torino). Così come si diffondono iniziative di condivisione delle conoscenze aperte e libere, per fare un solo esempio: Oilproject: quasi sempre si tratta di iniziative nate su base volontaria e spesso la loro esistenza condivide la condizione di precarietà permanente di analoghe attività culturali. Chi non vuole pubblicare solo per avere un titolo da spendere per il prossimo concorso, insomma, di strade ne ha in abbondanza e in molti già le percorrono.
iniziano a mietere vittime anche tra gli eventi che hanno progressivamente sostituito, in questi anni, gli investimenti diffusi, e continui nel tempo, di cui l’Italia avrebbe estremo bisogno. Più libri Più liberi per quest’anno si salverà, ma si diffondono ipotesi circa un possibile trasferimento in un’altra regione. Staremo a vedere, anche se non è questo il punto.
Anche Più libri più liberi sotto la scure dei tagli
Mentre sugli schermi scorrono senza sosta le agenzie e i comunicati sullo spread in ascesa incontrollata e si guarda al Quirinale sperando in una soluzione della crisi politica e istituzionale, arriva la notizia dei finanziamenti scomparsi per la Fiera Più libri Più liberi. Regione e Comune, che patrocinano la Fiera, non avrebbero ancora confermato i propri contributi, mettendo a repentaglio il budget dell’evento: e se per il 2011 l’Aie avrebbe individuato una soluzione…
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Ricevo e pubblico (chissà che non ci siano filantropi tra i lettori):
Egregi Professori,
a causa delle note difficoltà finanziarie, La Biblioteca non potrà procedere all’acquisto dei testi in adozione per gli esami previsti per l’a.a. 2011/12. Chiedo di valutare la possibilità, laddove sia possibile e nell’interesse degli studenti, di fornire alla Biblioteca una copia dei testi d’esame.L’immagine è di ptwschool.com