categorie: libri: istruzioni per l’uso
Nel numero di luglio di “Altreconomia” è uscito un articolo di Federica Seneghini dal titolo evocativo In libreria come al supermercato.
Federica Seneghini si è scontrata, come molti, con la difficoltà di reperire dati aggiornati sulla situazione del mercato editoriale italiano e, durante la ricerca, si è imbattuta sulle informazioni che da anni raccolgo per lo svolgimento del corso di Economia e gestione delle imprese editoriali all’Università di Tor Vergata.
Con Federica abbiamo avuto un lungo colloquio che ha costituito lo spunto per l’articolo e che mi auguro contribuirà a sollecitare ulteriori ricerche: rendere pubblici dati che in molti conoscono, ma che raramente vengono diffusi dalle principali fonti di informazione, è un obiettivo di trasparenza in grado di contribuire alla conoscenza condivisa e al superamento di iniquità del sistema.
L’articolo, cui si è aggiunto un commento di Paolo Soraci (Ufficio stampa delle Librerie Feltrinelli), è ora disponibile on line e si tratta di un buon punto di partenza per ragionare sul mercato editoriale italiano.
Prendete un libro di Altreconomia. Facciamo che costi 10 euro. 40 centesimi vanno subito in Iva. Un euro circa per la stampa. Altrettanto per editing e grafica. 80 centesimi vanno all’autore. Siamo già a 6,80 euro. Poi Ae decide che quel libro va in libreria. Il distributore nazionale cui si affida chiede il 56% di sconto (lui applicherà alle librerie il 30%). Da quel libro quindi, Ae porta in cassa la bellezza di 1,20 euro. A fine anno però si scopre che il distributore si è visto costretto a fare ulteriori sconti ai librai, in particolare alle grandi catene. Pena, l’esclusione dagli scaffali.
Fatti i conti, lo sconto reale arriva al 63%. Tradotto, per ogni libro da 10 euro ad Ae restano 50 centesimi, il 5%. Vi pare normale?
Continua a leggere qui.
Caro Marco,
sto seguendo con attenzione il dibattito successivo al tuo post e alle precedenti riflessioni di Barillari (e del gruppo TQ).
Anche io ho avuto modo in questi anni di riflettere e discutere del mestiere di editore attraverso l’impegno universitario, oltre che misurandomi quotidianamente con il lavoro editoriale.
Proprio il confronto serrato con gli studenti ha costituito l’occasione per riuscire a cogliere con maggiore profondità di analisi alcuni dei nodi in cui si dibatte l’industria libraria, da un lato prendendo la necessaria distanza dalle contingenze dell’attività editoriale, dall’altro sottraendosi ai periodici (e spesso vacui) tormentoni cui ci trascina il dibattito, più o meno mainstream.
Tenterò, perciò, di ragionare sulle tue riflessioni e sulla tua proposta, riprendendo alcune considerazioni che proponevo più di un anno fa, aggiornandole alla discussione presente che vorrei non si riducesse al sondaggio pro o contro lo slogan del giorno, rischio che tu stesso segnali e dal quale inviti a sottrarsi.
Partirei però proprio da quello slogan, “decrescita editoriale”, poiché in quella formula è insita l’idea che pubblicare meno significhi pubblicare “meglio”. Già la nozione di un meglio (per chi? su quali basi?) è portatrice, se va bene, di pericolosi equivoci; se poi guardo alla mia personale esperienza nella saggistica posso testimoniare che i libri migliori, spesso, nascono dallo scambio e dalla condivisione di una riflessione comune, da un confronto plurale (che di frequente si traduce in altrettanti volumi), piuttosto che dal parto romantico e solitario di un autore (eventualmente accompagnato al suo editor/editore). Questo lavoro collettivo è divenuto oggi assai più evidente grazie alla rete, là dove le persone coltivano specialismi apparentemente autoreferenziali, che osservati meglio si manifestano come nicchie di saperi importanti da coltivare. Come per l’università: quando si ragiona sull’utilità di mantenere un corso, che so, di assirologia, pur essendoci solo due iscritti. Quale sarà l’ateneo che potrà e vorrà permettersi di mantenerlo, in perdita certa per gli attuali parametri di valutazione?
Per la narrativa le cose vanno diversamente? Certo, sui cloni dei vampiri, maghetti o signore in cucina potremmo imporre una moratoria. Ma su che base scegliere la migliore riedizione di un classico? Il marchio editoriale, il prezzo, una certa introduzione, una nuova traduzione? E come esser fiduciosi nella capacità e volontà dell’editoria di sperimentare, pubblicando l’autore ignoto, la ricerca stilistica, i contenuti innovativi, se il budget previsionale segna negativo?
Il fatto è che la conoscenza (l’arte, l’informazione, i saperi…), in quanto bene comune, è irriducibile all’utile (e non solo a quello economico), mentre i sistemi di selezione si basano, oggi, quasi unicamente su quello.
Con gli studenti, quest’anno, abbiamo avviato un blog di recensioni dedicato alle pubblicazioni degli editori indipendenti: per molti di loro, confrontarsi con una produzione tanto ricca quanto semisconosciuta è stata un’autentica sorpresa. Conoscevano alcuni di quegli editori, ne avevano letto qualche libro, ma la dimensione della proposta, in termini di ricerca, cura, scommessa culturale ha rappresentato una scoperta che penso resterà nella loro esperienza di lettori. Come lettori, d’ora in avanti, a prescindere dal canale in cui sceglieranno di compiere i loro acquisti (libreria di catena, indipendente, store on line), sanno che vale la pena cercare oltre le proposte da banco o da vetrina.
Se riteniamo importante consentire di esprimersi a questa pluralità di offerta, alla bibliodiversità, il problema però è come riuscirci, posto che quanto affermato da Gian Arturo Ferrari – pubblicare costa così poco da convenire più di un’indagine di mercato su quello stesso titolo – vale probabilmente per i grandi gruppi editoriali, non certo per editori che con poche decine di migliaia di euro mandano avanti la baracca intera (e forse adottano sistemi diversi dalle indagini di mercato per scegliere i libri da pubblicare).
Il punto è spinoso, poiché anche l’editoria digitale, che altrove sta già offrendo un’alternativa fondamentale alle perverse regole del mercato tradizionale, si troverà a sua volta a fare i conti con forme di concentrazione altrettanto potenti giocate dai grandi player globali – Amazon, Google, iTunes (e tale possibilità mi pare assai più realistica della paventata deriva in cui ciascuno si trovasse a leggere solo se stesso).
La peculiarità dell’editoria digitale – gli ebook in tutti i formati, noti e che verranno – sta nella sua capacità di imporre un ripensamento radicale al ruolo e al lavoro dell’editore: non un comparto del lavoro editoriale (i libri che stampiamo, li produciamo anche in ebook), ma la riconsiderazione delle modalità con le quali pensiamo, progettiamo, scriviamo e pubblichiamo i libri. C’è veramente molto che può essere sperimentato, nonostante le arretratezze strutturali e culturali, e ancora troppo scarse in Italia sono le iniziative (per esempio qui, qui e qui).
Esperienze di questo tipo penso abbiano molto da insegnare sulle modalità con le quali restituire centralità al rapporto con i lettori, un rapporto che nell’editoria digitale vede i ruoli confondersi e oltrepassare le logiche tradizionali; logiche che di frequente, negli ultimi anni, mi si sono mostrate attraverso il paradosso di far sentire inadeguata l’editrice agli occhi della lettrice.
La legge Levi sul prezzo dei libri è un esempio recente e calzante, poiché la “difesa” di editori e librai indipendenti, con il tetto del 15% allo sconto, alla fine, la pagherà proprio quel già esiguo manipolo di lettori (circa 3 milioni dai 6 anni in su) che legge almeno un libro al mese. Ha senso imporre un tetto allo sconto sui libri mentre ogni altra scelta di politica culturale si muove in senso inverso e una parte dei big interessati, sappiamo fin d’ora, per consuetudine con gli svariati conflitti d’interesse, troveranno il modo di “eccepire” alla regola? In altri paesi, il prezzo imposto sui libri si accompagna a investimenti a sostegno di istituzioni pubbliche, librerie, editori e biblioteche (da noi l’Aib denuncia, per il 2011, tagli all’acquisto di libri fino al 35%), a serie (cioè selettive, mirate, attente alla qualità) campagne di promozione della lettura tra i giovani e gli adulti: si chiede ai lettori di pagare un costo in nome di un principio perché Stato e attori economici rispettano quel principio e restituiscono quel costo in altra forma. Il circolo è virtuoso, mentre qui rischia di divenire vizioso come altre forme di protezione corporativa delle quali si giovano soprattutto i soliti noti.
Esempi se ne potrebbero fare altri, a partire dall’oligopolio dell’editoria scolastica, talmente smodato da spingere qualche anno fa l’Antitrust ad aprire un’inchiesta per appurare la presenza di accordi di cartello sui prezzi: abbiamo qualcosa da dire, in proposito? Abbiamo da dire qualcosa sul ruolo dell’Aie, in questa come in altre circostanze, giacché l’associazione parla e agisce a nome di tutti gli editori, non essendoci altre voci rappresentative delle imprese editoriali?
A ragionare sulle questioni emerge una complessità irriducibile, che non si può affrontare solo con i buoni propositi dei singoli (mi dedico scrupolosamente alla raccolta differenziata, ma se il sistema di raccolta dei rifiuti è incoerente con i comportamenti virtuosi, campa cavallo…).
Quando, alla fine del 2008, lanciammo un appello per la sopravvivenza della Meltemi molti colleghi ripeterono per l’ennesima volta la tiritera “è il mercato, baby”, aggiungendo poi che tanto il libro “è anticiclico e si avvantaggia delle crisi” e che quindi la splendida macchina del mercato editoriale sarebbe tornata a brillare. Oggi si è allargata la schiera di quanti sono consapevoli che il mercato non è affatto libero (e quand’anche lo fosse non dà risposte adeguate per i beni comuni) e che lo stato depressivo del nostro Paese è ben più strutturale e profondo di quanto possa essere determinato dalle più acute crisi finanziarie.
Stendiamo pure un decalogo di azioni positive (proposte ne sono state fatte diverse, per esempio qui e qui, e altre in passato), ma non perdiamo di vista l’insieme, che chiede una puntuale analisi critica di scelte politiche e comportamenti imprenditoriali, urgenti proposte e corposi interventi di inversione della rotta.
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Di seguito, i link ad alcuni dei post e articoli sull’argomento che tenterò di mantenere aggiornati:
Alcune modeste proposte per le case editrici, a cominciare dalla mia, di Marco Cassini (pubblicato il 14 luglio 2011, poi il 18 su minimaetmoralia);
Per un patto di decrescita nella produzione delle opere culturali, di Simone Barillari (28 giugno 2011, minimaetmoralia);
L’idea della graduale decrescita editoriale, di Antonio Dini (14 luglio 2011, Il Sole 24 Ore);
Nell’era della decrescita anche l’editoria prova ad adeguarsi, di Francesco Longo (14 luglio 2011, il Riformista);
Premi, Grant e cattedre: idee per il mestiere di scrivere in Italia, di Giordano Tedoldi (14 luglio 2011, minimaetmoralia);
Meno libri, di Luca Sofri (15 luglio 2011, Wittgenstein);
Newton Compton ad Affaritaliani.it: “Sì alla ‘decrescita’, ma servono anche i prezzi più bassi…”, di Antonio Prudenzano (18 luglio 2011, Affaritaliani.it)
Meno titoli per tutti, di Loredana Lipperini (18 luglio 2011, la Repubblica);
Decrescita infelice (per il libraio), di Disagiato (18 luglio 2011, Sempre un po’ a disagio);
Libri, la decrescita felice votata dai grandi editori, di Maurizio Bono(19 luglio 2011, la Repubblica);
“Decrescita felice? Da sempre Feltrinelli non inonda il mercato. E i risultati ci danno ragione, anche in un momento difficile come questo” (intervista a Gianluca Foglia), di Antonio Prudenzano (19 luglio 2011, Affaritaliani.it);
Signore e signori: l’Editoria! – Lettera aperta agli editori, di Luigi Bosco (20 luglio 2011, poesia 2.0);
Simone Perotti e la “decrescita felice” nell’editoria…, di Simone Perotti (20 luglio 2011, Affaritaliani);
Giulio Milani (Transeuropa) e la decrescita felice: “Valorizzare le bibliodiversità”, di Giulio Milani (20 luglio 2011, Affaritaliani);
Editori iperproduttivi e anomalie del mercato, di Marco Cassini (21 luglio 2011, la Repubblica) vedi post e commenti qui: Concentrazioni (21 luglio, Lipperatura);
Salva un libro, uccidi un editore, di Ilaria Bussoni (21 luglio 2011, il manifesto);
“Anomalia italiana nell’editoria intervenga l’Antitrust“, di Andrea Cortellessa (21 luglio 2011, la Stampa);
Editoria: decrescita felice e circoli viziosi, di Cristiano Abbadessa(21 luglio 2011, paperblog);
Ecco perché gli editori pubblicano così tanto, di Gian Arturo Ferrari (22 luglio 2011, la Repubblica) vedi post e commenti qui: I sassi del fondo (22 luglio 2011, Lipperatura);
Sommersi dai libri, di Simone Ghelli (22 luglio 2011, Scrittori precari);
Ma è decrescita o trionfo del bestseller?, di Andrea Libero Carbone (23 luglio 2011, il manifesto);
Autori, editori e librai/2, di lucius (24 luglio 2011, Editing and Publishing);
‘Pubblicare meno, pubblicare meglio’… Pubblicare digitale?, di Maria Cecilia Averame (25 luglio 2011, Maria Cecilia Averame, Quinta di copertina);
De Michelis (Marsilio): “Con Amazon noi editori saremo costretti a produrre di più…”, di Antonio Prudenzano (25 luglio 2011, Affaritaliani).
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[Update 1 agosto 2011]Tener dietro al dibattito, intenso nonostante il periodo, non è affare semplice, anche a causa della pubblicazione, in questi stessi giorni, dei manifesti della generazione TQ. Di questi e le relative discussioni (ricchissime, in rete e sulla stampa) non darò conto qui poiché meritano una riflessione autonoma, anche se intrecciano numerose questioni sollevate dal mio post, come pure da molti tra quelli in elenco.
Va segnalata, però, una sorta di biforcazione del dibattito: mentre attorno ai manifesti TQ si sviluppano analisi e discussioni di politica culturale “generale”, gli altri interventi si concentrano prevalentemente sulla legge Levi e i suoi esiti. Questo ramo della discussione è animato dalla contesa (detto molto a spanne) tra coloro che sostengono necessaria una difesa dell’editoria tradizionale indipendente (piccoli editori, librerie, ecc.) attraverso specifiche forme di protezione, e coloro che ritengono tali provvedimenti illiberali e punitivi (nei confronti dei lettori oltre che verso i concorrenti) e auspicano un’accelerazione della transizione al digitale con conseguente adeguamento degli attori in campo.
Oltre ai link segnalati, ulteriori fonti di aggiornamento possono essere reperite su Twitter, seguendo gli hashtag #LeggeLevi, #editoria, #libri.
Le dimissioni di Guaraldi dall’AIE, di Mario Guaraldi (27 luglio 2011, bibienne);
I conti di Sandro Ferri, di Sandro Ferri (28 luglio 2011, Lipperatura);
Interesse pubblico, di Stefano Chiodi (29 luglio 2011, doppiozero);
Compiti delle vacanze, di matteob (29 luglio 2011, bookrepublic);
Vendere libri con l’aiuto dei pirati, di Giuseppe Granieri (30 luglio 2011, La Stampa);
Legge Anti-Amazon: felicità nella AIE e dimissioni, del Duca di Carraronan (31 lug 2011, Baionette librarie);
La difesa del piccolo libraio?, di Massimo Mantellini (31 luglio 2011, manteblog);
Verso un’ecologia della produzione editoriale, di Simone Barillari (31 luglio 2011, il manifesto);
Cultura non a buon mercato, di Manuel Peruzzo (1 agosto 2011, Il Giornale di Letterefilosofia);
DDL Levi “Nuova disciplina sul prezzo dei libri”, Comunicato dell’Associazione Italiana Biblioteche (1 agosto 2011, ora anche su Nazione Indiana);
Come salvare la nave che affonda?, di Martina Testa (2 agosto 2011, Le reti di Dedalus; anche su minimaetmoralia);
Incompetenti, per fortuna, di noiseFromAmeriKa (3 agosto 2011).
Faccia la cortesia, si Levi, di Massimo Mantellini (3 agosto 2011, manteblog).
Quindici anni fa ho scelto di dedicare la mia vita a fare libri. Metterne con cura insieme gli elementi che li rendono concreti: autori, testi, carte, idee, immagini e colori, traduttori, agenti e molti altri. Un mestiere appassionante quando ti consente di interpretare un bisogno di riflessione e conoscenza, irripetibile quando ti offre la possibilità di anticipare ed esprimere una domanda che attende di trovare modi e luoghi per essere posta.
Da alcuni anni questo straordinario lavoro è divenuto una corsa a ostacoli, forse anche per errori o troppa ostinazione, certamente a causa di un contesto in cui i libri rappresentano un dono che sempre meno persone fanno a se stesse [1]. Soprattutto quei volumi che chiedono tempo e fatica, che a volte devi leggere con un dizionario accanto o che puoi comprendere solo se ne hai letti altri che ti consentono di ricostruire le piste, a volte sottilissime, di un pensiero critico sul presente che non si adagia in semplici risposte o in osservazioni falsamente neutre.
Il mercato dei libri, come l’informazione, in Italia (e non solo qui, come già dieci anni fa denunciava André Shiffrinnel suo Editoria senza editori) è bloccato [2], ridotto a rigenerare per lo più il medesimo “prodotto” finché il circolo (vizioso) ne sostiene la vita finanziaria: ricerca del best-seller, titoli-cloni, semplificazione di linguaggio e struttura dei testi, promozione e recensioni organizzate, distribuzione e commercio ormai militarmente occupati dalle grandi concentrazioni editoriali e dalle catene di vendita. Eccezioni ovviamente ci sono, alcune nicchie resistono, piccoli editori con buone vendite di un libro o di un autore sopravvivono. Ma di eccezioni si tratta.
La Meltemi, per esempio, con le vendite in libreria non rientra neppure dei costi di produzione [3] ed è indispensabile cercare finanziamenti a monte: dalle istituzioni (fondazioni, università, associazioni), dagli stessi autori (che rinunciano ai diritti e/o acquistano copie), da privati (filantropi o persone interessate a farsi pubblicità attraverso il libro). L’editoria di ricerca, in Italia e non solo, vive grazie a questi contributi, non sempre trasparenti e spesso risultato di scelte che poco hanno a che fare con il merito e la qualità dei testi.
Non è questa la sede per entrare nel dettaglio dei meccanismi perversi che ho tratteggiato, il risultato è chiaro, però: gli spazi per tutto quanto “non conforme” si vanno gradualmente riducendo (e aggiungo, per gli ingenui o chi non vuol capire, che conformi sono anche, per esempio, tanti pamphlet di denuncia pienamente integrati nel sistema).
A questa situazione sconfortante si aggiungono le pratiche di “autodifesa” dei lettori (soprattutto gli studenti, tenuti ad acquistare i libri per lo studio): fotocopie e, sempre più spesso, file piratati reperibili on line. Non a caso le chiamo pratiche di autodifesa, poiché considero la necessità di risparmio per l’acquisto dei libri un problema reale (anche se ricordo che la sola spesa per “gratta e vinci” in Italia è circa due volte e mezzo il fatturato del mercato editoriale…).
In coloro che scelgono di scaricare un libro dalla Rete, come ho sostenuto anche qui, pur se contravvenendo le attuali norme sul diritto d’autore, io non vedo pericolosi criminali. Vedo piuttosto persone, spesso ma non sempre giovani (come mostra Luca Neri nel suo La baia dei pirati), che sempre più si abituano a cercare in rete i contenuti in formato digitale: se li trovano disponibili a prezzi contenuti di frequente li acquistano, altrimenti se li procurano, esattamente come fanno con i file musicali o cinematografici. E questo avverrà in misura sempre maggiore con la diffusione (e il relativo abbassamento dei costi) dei lettori di e-book, che superano gli inconvenienti della lettura sugli schermi retroilluminati e consentono l’archiviazione di quantità enormi di dati in un supporto di dimensione e peso inferiori a quelli di un libro.
Con un po’ di ritardo, ma con molte probabilità, avverrà per i libri ciò che è accaduto a cd e dvd, e che sta travolgendo l’informazione quotidiana: come da tempo in diversi sottolineano, recentemente con particolare assiduità Giuseppe Granieri (qui discute dell’e-book come “format” per il web e di self-publishing, ma molti post sono dedicati all’argomento).
È un male che questo accada? Secondo me no.
Poiché penso, compiendo un passo ulteriore rispetto alle valutazioni interne a una logica di mercato (quelle cioè che vedono in Amazon, iTunes, YouTube o altri dei campioni anticipatori che riescono a guadagnare dove altri falliscono [4]), che i punti sui quali dovremo confrontarci riguardano i temi della proprietà intellettuale, della conoscenza come bene comune e della libertà della Rete.
Per quel che riguarda la proprietà intellettuale, il passaggio dei diritti d’autore dalle mani degli editori tradizionali a quelle di piattaforme come Amazon (che sempre più si qualifica come un operatore a tutto campo nel mondo del libro), non garantisce affatto una maggiore libertà d’uso, disponibilità e conservazione dei contenuti digitali. Cambia il formato dei contenuti (dal libro al file, dagli atomi ai bit), diminuiscono vertiginosamente i costi di produzione e distribuzione, si moltiplicano le possibilità di circolazione, ma non cambiano le regole che potrebbero consentire, un giorno o l’altro, a operatori quali Apple, Google o Amazon di stabilire prezzi e determinare le scelte del mercato (che non è libero, soprattutto quando si profilano, come in questo caso, concentrazioni monopolistiche), esattamente come avviene oggi per l’editoria tradizionale.
Il problema da affrontare in questo ambito è, dunque, se consideriamo l’attuale normativa sul diritto d’autore un moloch immodificabile (o modificabile, come è avvenuto negli ultimi decenni, solo verso una sua estensione in termini di durata e di “oggetti protetti”), oppure se iniziamo a valutare le diverse opzioni che vanno diffondendosi tra autori e detentori di brevetti (le principali: Creative Commons, GNU General Public License, GNU Free Documentation License [5]) come percorsi possibili per un cambiamento legislativo che tuteli effettivamente gli autori, i contenuti e chi ne fruisce e non solo (o quasi) chi ne fa commercio. O ancora, se intendiamo restare con le mani in mano, mentre le grandi concentrazioni dell’entertainment e delle telecomunicazioni (vedi ad esempio le ombre contenute nel pur importante “Pacchetto Telecom” approvato dal Parlamento europeo lo scorso novembre) sferrano ulteriori attacchi contro gli utenti di Internet (più o meno sostenuti dai governi) per resistere a una capitolazione alla quale sono ormai consapevoli di essere destinati.
La questione si sposta quindi su quale sia la nostra visione della conoscenza, alla luce della trasformazione dei contenuti da analogici in digitali e della illimitata possibilità della loro circolazione attraverso Internet. Faccio mie, in proposito, le diverse proposte elaborate da Elinor Ostrom (Nobel per l’economia nel 2009 grazie ai suoi studi sull’organizzazione della cooperazione nella governance economica) e dagli autori dell’approfondito volume La conoscenza come bene comune, e tento di offrirne una sintesi (estremamente semplificata, ma ne avevo scritto più estesamente qui).
Privatizzare e recintare il mondo dei saperi (nelle loro nuove forme digitali) o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia molteplici questioni: dalle forme e garanzie dell’accesso (divari digitali e culturali) alla tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori delle opere, dilatando la discussione dalla gratuità o meno dei contenuti alla certezza della loro disponibilità; una domanda che implica risposte di governance che considerino la conoscenza in Rete come un bene comune e un diritto di cittadinanza, riconoscendone il valore di sistema estensivo del mondo relazionale e informazionale della nostra società.
In questa sfida siamo tutti coinvolti: singoli cittadini, imprese, istituzioni; ma appare evidente come siano necessari e impellenti orientamenti politici chiari che non contrastino solo a parole, o con prese di posizione occasionali connesse all’opposizione sugli ennesimi legge, decreto o progetto di legge (dalla Hadopi in Francia, al Digital Millennium Copyright Act negli Stati Uniti, alla pletora di provvedimenti approvati o in arrivo in Italia), strategie di limitazione, censura, soffocamento della libertà della Rete presenti, pur con diversa aggressività, ovunque nel mondo.
Su alcune proposte, sia sotto il profilo imprenditoriale (come casa editrice) che in termini politici, tornerò più avanti (anche per non estenuare gli impavidi che hanno avuto la tenacia di leggere fino a questo punto). Nel frattempo, riassumo nei due punti seguenti le piste lungo le quali intendo muovermi, nell’una e nell’altra direzione:
- individuare, in accordo con gli autori, forme di accesso libero e gratuito ai contenuti che ne garantiscano la permanenza nel tempo e non “recinzione” e che coesistano con la vendita dei file digitali dei libri a prezzi competitivi con il mercato delle fotocopie;
- elaborare un piano di politiche attive che non si limitino alla difesa della neutralità della Rete, ma stimolino la partecipazione dei cittadini alle discussioni e deliberazioni pubbliche, alla condivisione dei contenuti, alla disponibilità e democratizzazione delle informazioni della Pubblica Amministrazione [6], a partire dai contenuti della Carta per l’Innovazione, la creatività e l’accesso alla conoscenza sottoscritta a Barcellona nel novembre scorso.
L’impegno che considero non più rinviabile, almeno per me, oltre a promuovere e sostenere ogni iniziativa di contrasto alle politiche nazionali che minano le libertà di Internet, come quelle che ci hanno spinto a indire lo sciopero dei blogger il 14 luglio scorso, a sottoscrivere la “Carta dei Cento“, a lanciare l’appello “Libera rete in libero Stato” lo scorso mese di dicembre, ad aderire alla nuova iniziativa in cantiere dei Corsari della rete e a quelle programmate dai pirati per il prossimo futuro, è quello di intraprendere un’azione propositiva sui due terreni nei quali ho la possibilità di esprimere più che una protesta.
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Note
[1] I dati in Italia parlano chiaro: i lettori “forti” restano una minoranza e cala il fatturato del settore.
[2] Nelle discussioni seguite alla pubblicazione del libro in Italia molti operatori del settore commentarono che noi eravamo ancora distanti dalla drammatica situazione nordamericana e che la vivacità e pluralità del mondo editoriale italiano avrebbe sviluppato anticorpi sufficienti a evitare l’affermarsi di monopoli e concentrazioni pari a quelli statunitensi. Viene da ridere a fotografare oggi la situazione del mercato editoriale librario in Italia: 6 gruppi da soli detengono circa il 70% del mercato (Mondadori con il 30%, oltre a RCS, GEMS, De Agostini, Giunti e Feltrinelli), altri 50 editori si dividono una fetta di circa il 20% e i restanti più o meno 7000 spetta il residuo 10%.
[3] Nell’anno di uscita, in media, ogni titolo vende circa 200 copie, ma negli anni successivi le vendite calano drasticamente, anche a causa dell’espulsione dalle librerie. Il 60% circa del prezzo di copertina va a coprire i costi di distribuzione (45-50% di cui il 25-30% è destinato alle librerie), promozione (8-10%), magazzino e trasporti (5-6%). Su un volume che costa 10 euro, quindi, 6 euro vanno in costi successivi alla produzione. Gli altri 4 euro dovrebbero riuscire a coprire i costi tipografici, redazionali, i diritti d’autore e i costi fissi della casa editrice. Vendendo 200 copie il ricavo è di 800 euro: non ci si paga neppure la tipografia, appunto; e per di più quegli 800 euro arrivano all’editore almeno tre mesi dopo la vendita delle copie, obbligando a ricorrere al credito bancario, con i suoi costi ulteriori.
[4] Un autore fondamentale per comprendere tale posizione è Chris Anderson, direttore della rivista Wired; di lui si vedano: La coda lunga e Gratis.
[5] Esempi ce ne sono tanti. Qui citavo quello di Ilaria Capua, ricercatrice italiana che non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato quando ha deciso di registrare l’esito delle proprie ricerche in un archivio digitale aperto anziché cederlo all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
[6] Su questo tema mi sono già impegnata durante la campagna elettorale per le europee, sottoscrivendo il Patto per il software libero.
Sono trascorsi pochi giorni dalla sentenza del processo a The Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file via internet (qui un post interessante con successiva discussione).
Di copyright, file sharing, mp3 e pdf che circolano in rete si continua a parlare, non solo in Italia, quasi unicamente per affermare il diritto delle major discografiche o degli editori a difendere i propri interessi economici. Tornerò su questi argomenti; intanto, sottraendoci ai luoghi comuni del mainstream informativo, vi propongo una storia esemplare (passata quasi inosservata sulla stampa), che mostra come la condivisione della conoscenza abbia ben altra portata.
Ilaria Capua, una ricercatrice italiana che dirige il Centro di referenza per l’influenza aviaria dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nel 2006, in piena “emergenza aviaria”, individua il virus africano della malattia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità le propone di entrare in un “club” di ricercatori che hanno accesso riservato a un database in cui vengono scambiati (ma solo tra coloro che ne fanno parte) i risultati delle ricerche. Consapevole dell’importanza della scoperta compiuta dal suo laboratorio, e degli effetti positivi che una sua circolazione rapida ed estesa può produrre nell’arresto della diffusione del virus, declina l’offerta dell’OMS e inserisce l’esito del suo studio in Genbank, un archivio digitale aperto (nel quale, cioè, le ricerche pubblicate sono di pubblico dominio, accessibili a chiunque, in particolare a tutta la comunità scientifica, senza limitazioni proprietarie o commerciali).
Nel 2007 la dottoressa Capua ha vinto il premio SciAm50 per la leadership in science policy assegnato dalla rivista “Scientific American” e nel 2008 figura tra le cinque “Revolutionary Minds” dell’anno per la rivista americana Seed Magazine.
A proposito di copyright e copyleft, proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza il Parlamento europeo può fare molto, ne scriverò prossimamente. Intanto, chi vuole saperne di più, può leggere questo post di Arturo di Corinto e navigare tra i link che trova qui a fianco.