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Questo è il testo del mio intervento al convegno “Verso una società della conoscenza“, svoltosi il 12 maggio scorso a Roma e cui hanno partecipato Antono Di Pietro, Pancho Pardi, Giorgio Pressburger, Nicola Tranfaglia e Gianni Vattimo.
Non ha la lunghezza “regolamentare” di un post: perciò se vi interessa conoscere ciò che penso sulle libertà digitali prendete pazienza e datevi un po’ di tempo. In alternativa, qui c’è il pdf che potete scaricare: libertadiconoscenza.
Siamo qui a parlare di un oggetto inesistente: la cultura europea. Potremmo andarcene tutti a casa, allora? No, siamo qui proprio per contribuire a disegnare un panorama culturale per l’Europa nel quale l’Italia, insieme agli altri paesi che compongono l’Unione, trovi un suo spazio e una sua dignità. Magari profittando delle opportunità (anziché occupare a intermittenza gli scranni del Parlamento europeo per deriderle, ignorarle o contestarle, come fa troppo spesso il nostro presente governo), che ci offre l’appartenere a tale contesto.
La cultura europea è segnata, ancora oggi, da due spinte contrapposte: da un lato, l’omologazione prodotta ovunque dai processi di concentrazione globale che investono l’industria culturale come e più di altri settori (per fare un solo esempio: nei Paesi dell’UE, in media, il 70-75% dei prodotti audiovisivi è costituito dai prodotti nordamericani più una quota di nazionali, solo il restante 25-30% è rappresentato da prodotti degli altri Paesi UE); dall’altro, dai particolarismi che, quando va bene, producono il riemergere del folklore locale, in altri casi determinano rigurgiti razzisti e xenofobi dei quali un vergognoso esempio sono le recenti proposte a proposito di posti riservati nei bus.
Insomma, aveva ragione il padre della cultura europea, Jean Monnet, quando diceva che si sarebbe dovuto iniziare da qui, dalla costruzione di un tessuto comune e condiviso di pratiche e immaginari, anziché dagli accordi commerciali bilaterali con i quali si è avviato il processo di unificazione.
Oggi però esiste un terreno rispetto al quale è possibile, necessario e per certi versi obbligato, pensare in grande e affidarsi alle potenzialità che un organismo di dimensioni ben più ampie di quelle nazionali ci consente: quel terreno è la rete, uno spazio dai confini labili, ma lungo i quali si stanno combattendo battaglie assai aspre e sempre più presenti anche nelle cronache di gran parte della stampa, fino a poco tempo addietro disattenta a questo mondo, se non per lanciare allarmi sull’ultimo crimine virtuale.
La fotografia di alcuni recentissimi provvedimenti danno la misura di quanto sia discussa e sede di profondi, quanto confusi, conflitti la volontà di governo di Internet.
– In Francia, dopo una discussione animata in Parlamento e nel paese, il 12 maggio è passata la legge Hadopi (Hadopi è un acronimo che sta per Haute Autorité pour la Diffusion des Œuvres et la Protection des Droits sur Internet. Il testo della legge e un utile commento), definita “ammazza p2p” perché prevede, per chi scarica illegalmente opere dalla rete, sanzioni che potranno giungere alla disconnessione da Internet.
– Il 6 maggio il Parlamento Europeo ha bocciato la proposta di legge che prevedeva il blocco della connessione internet per chiunque commettesse attività illegali come il download piratato di file video e audio da Internet.
– Il 29 aprile, la Camera dei deputati ha stralciato dal ddl sulla sicurezza l’emendamento D’Alia, inutile provvedimento che avrebbe messo in pericolo la libertà in rete.
– Il 17 aprile è stata emessa in Svezia la sentenza del processo a The Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file via internet che ha condannato i fondatori e amministratori del sito a pene severissime.
E si potrebbe continuare, elencando provvedimenti restrittivi che si alternano di giorno in giorno a sussulti di tutela delle libertà, testimoniando la grande confusione che regna nelle aule legislative della UE.
Il bivio cui ci troviamo è questo: privatizzare il mondo dei saperi o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia questioni diverse: dalle forme e garanzie dell’accesso (il digital e cultural divide), a quelle di tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori di contenuti (oggi in modo inedito mescolati tra loro). Le incrocia in modo intricato, essendo i destini della rete, della sua esistenza e del suo sviluppo, legati a doppio filo con quelli delle telecomunicazioni, e coinvolgendo perciò interessi vasti e diversificati. Tre sono le grandi questioni da affrontare.
1. La prima questione riguarda il servizio universale: una spina del telefono è un diritto di tutti, ma nel mondo c’è chi un telefono non l’ha mai visto. Cosa può fare l’Europa al riguardo per ristabilire un equilibrio, al suo interno e in relazione con il pianeta?
2. La seconda concerne l’accesso universale: un servizio minimo deve essere offerto a chiunque ne faccia richiesta. Ma cosa accade se solo un’esigua minoranza può giovarsi della banda larga e il resto del mondo dispone, al massimo, di un doppino telefonico? E ancora, potremo accedere a tutto il sapere disponibile in rete, o solo a sue porzioni? Potremmo anche trovarci ad aprire la porta di una stanza vuota, perché i contenuti più interessanti sono stati spostati altrove (Lawrence Lessig, Cultura libera).
3. Il terzo punto ha a che vedere con il servizio pubblico: se la pluralità e democraticità dei saperi e delle informazioni debbano cioè, in qualche modo, essere garantite dagli Stati attraverso forme attive di intervento pubblico.
Alla prima domanda risponde la Risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2008 (che recepisce ed estende i principi esposti nel Trattato di Lisbona), la quale insiste sugli strumenti atti a rendere Internet accessibile al maggior numero di persone, ad esempio attraverso la trasparente concorrenza tra operatori e fornitori di servizi, la neutralità tecnologica e lo sviluppo delle ICT, anche per i servizi di cui aziende europee sono fornitrici a paesi terzi.
La seconda questione è più complessa: riguarda disparità sociali, economiche e geografiche nell’accesso alla tecnologia (connessione standard vs connessione veloce), riguarda differenze culturali nell’accesso ai contenuti (cui possiamo pervenire solo se abbiamo alcune competenze), riguarda infine i dispositivi normativi che regolano le modalità più o meno libere (sia in termini di diritto che di costi) di accesso ai contenuti digitali.
Tale complessità, però, appare assai meno ardua se anziché ragionare guardando alla rete come a un sistema chiuso, al quale solo alcuni, a certe condizioni (perché dotati di alcuni privilegi economici, culturali, geografici, anagrafici) possono accedere, la vediamo nel modo in cui è stata immaginata dai suoi inventori: uno spazio libero dove le idee non perdono valore se si distribuiscono, anzi, più sono distribuite più si dimostrano efficaci e durevoli.
La ricchezza maggiore della rete si può esprimere solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno dispiegamento di queste potenzialità, poiché fondamentalmente attraverso essa passa oggi, e sempre più passerà in futuro, quel bene pubblico globale che è la conoscenza.
Un bene pubblico che non può essere recintato attraverso usi impropri dei brevetti o del copyright, i quali non hanno affatto l’obiettivo di tutelare i legittimi diritti degli autori, quanto quelli delle concentrazioni che producono e detengono le proprietà di una parte ogni giorno più grande delle opere dell’ingegno umano.
È contro questi usi impropri che si è espressa la Dichiarazione di Berlino del 2003 sul libero accesso alla conoscenza scientifica che vincola i firmatari ad adottare, per le proprie opere, formati aperti; che si esprimono un numero sempre maggiore di comunità scientifiche in tutto il mondo (dai medici ai farmacologici ai biologi); che si orientano i giovani musicisti registrando i loro brani con licenze Creative Commons; che si attrezzano le pubbliche amministrazioni attente alla reale accessibilità e trasparenza per tutti i cittadini dei propri documenti e archivi.
Perché non è in discussione qui tanto la gratuità dei contenuti, quanto la certezza della loro disponibilità e la reciprocità dello scambio che questo comporta: per un artista, per uno scienziato, per un autore il danno peggiore per la propria opera, infatti, non è la pirateria ma l’oscurità, l’indisponibilità. Allo stesso modo, un’istituzione pubblica che facesse gli interessi dei cittadini dovrebbe anzitutto preoccuparsi che essi possano liberamente e in qualsiasi momento avere accesso, in una lingua comprensibile e senza costi aggiuntivi, ai documenti che lo riguardano.
Se così guardiamo le cose, capiamo ad esempio che non possiamo ritenere irresponsabili i chimici che si rifiutano di brevettare i farmaci inventati, perché vogliono che le formule di quei medicamenti possano essere utilizzate anche dalle industrie indiane e non solo dalle multinazionali farmaceutiche occidentali.
Capiamo anche che, mutate le condizioni di produzione, fruizione, circolazione, condivisione dei contenuti, ostinarsi a considerare pirati decine e decine di milioni (42 solo negli USA, stima il New York Times) di persone che scambiano file attraverso la rete, non solo rappresenta un’inutile e anacronistica guerra, ma anche uno sperpero di risorse che potrebbero essere investite altrimenti.
Potrebbero essere investite, per esempio, nell’innovazione e nella ricerca di strumenti e processi che consentano di trarre un guadagno equo (il paradosso è solo apparente: esistono già molti esempi del genere, tra i più noti iTunes ed eBay) dalle modalità di scambio cui ormai siamo abituati: basti pensare ai dati di una ricerca recente dove si stima che “gli utilizzatori delle reti p2p acquistano musica legalmente fino a 10 volte in più rispetto a coloro che non effettuano download illegali”.
Il terzo e ultimo punto è degli altri in qualche modo conseguenza: se consideriamo la conoscenza (in tutte le sue forme: dal cinema al trattato scientifico, dalla musica alla formula matematica) un bene comune da tutelare, allora non possiamo lasciare il campo al solo potere regolatore del mercato (che poi tanto regolatore non è), ma dobbiamo anche prevedere, in alcuni casi continuare a farlo, forme di intervento pubblico che ne garantiscano la pluralità, favoriscano il confronto e l’esposizione a opinioni diverse con il conseguente sviluppo delle capacità critiche.
Ciò significa rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti e trasparenza delle informazioni (Stefano Rodotà, “Il sapere come bene comune”, intervento al Festivalfilosofia di Modena, 15 settembre 2007).
Prerequisiti, questi, perché esista una sfera pubblica in grado di disegnare un’idea di Europa non chiusa nelle identità particolari delle nazioni che la compongono o di se stessa, ma che faccia dell’incontro, e dell’attraversamento delle culture e delle lingue, la propria qualità specifica da spendere nel mondo di domani.