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In un Paese normale il governo, nel suo esercizio del potere esecutivo, dovrebbe occuparsi di rendere migliore la vita dei suoi cittadini. Dovrebbe occuparsi di questo, seguendo le priorità dettate dal proprio programma politico, condiviso dalla maggioranza che lo ha votato.
In un Paese normale, per approvare leggi di rilievo costituzionale – cioè che modificano in qualche modo lo spirito e lo scritto della Carta fondamentale – occorre che nel parlamento, che esercita potere il legislativo, si stabilisca un ampio consenso, un consenso molto più esteso della maggioranza di governo. Questa non è di per sé la garanzia che le leggi approvate siano rispettose della Carta, ma riduce (o dovrebbe ridurre) i margini di errore e di parzialità dei provvedimenti.
In un Paese normale, se il governo vuole far approvare una legge di modifica della Costituzione, dovrebbe auspicare – nella logica di collaborazione tra i poteri che bilanciano la vita democratica – che quella legge fosse sottoposta al giudizio del massimo grado del potere giudiziario, la Corte Costituzionale, poiché i giudici componenti della Corte si esprimono a nome e per conto di tutti i cittadini e dei loro diritti.
La legge 124 del 2008 “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, cosiddetta “lodo Alfano” è una legge che modifica la Costituzione. La modifica in due articoli importanti, ha sentenziato ieri la Corte Costituzionale. Nell’art. 3, “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E nell’art. 138, “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.
Se vivessimo in un Paese normale questa legge – che di fatto stabilisce l’immunità per il Presidente del Consiglio – non avrebbe dovuto essere presentata; non avrebbe dovuto essere approvata in Parlamento; infine, non avrebbe provocato l’indignazione di tanti cittadini, un milione dei quali hanno firmato per sottoporla a referendum abrogativo.
Se vivessimo in un Paese normale, non si dovrebbe dare un altro nome a questa legge per cercare di farla approvare, ma si dovrebbe tornare ciascuno ai propri compiti istituzionali. Noi cittadini ne abbiamo bisogno.
Se vivessimo in un Paese normale, sarebbe giusto che Silvio Berlusconi affrontasse i processi in cui è imputato (corruzione in atti giudiziari e reati societari).
Se vivessimo in un Paese normale sarebbe giusto che chi, come il nostro Presidente del Consiglio, ha forzato la mano al governo e al parlamento e costretto il più alto organo della magistratura a respingere una legge per le sue caratteristiche di ingiustizia e di parzialità (legge ad personam), si dimettesse dal suo incarico per difendersi nelle aule di giustizia senza trascinare nel discredito il Paese che rappresenta.