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Sono molti ormai gli studenti universitari abituati a studiare su una varietà di testi e documenti in formato digitale:
- dispense o presentazioni prodotte dai docenti in formato pdf e caricate su archivi dell’università, su depositi on line come Dropbox o su servizi di condivisione come Slideshare e Google doc, sui blog degli stessi docenti;
- ebook in formato epub, se disponibili, gratuiti o a pagamento;
- articoli e post reperibili su riviste on line, siti e blog;
- registrazioni audio/video, quelle autoprodotte durante le lezioni e riascoltate in forma di mp3 con i propri computer e lettori, quelle messe a volte a disposizione dagli stessi docenti, quelle reperibili in rete.
Tali materiali, se le condizioni legali dei documenti lo consentono, vengono scambiati in una varietà di modi ancora più ampia: dalla vecchia fotocopia alla copia dei file attraverso chiavi usb, alla condivisione su Facebook, fino al deposito su qualche Torrent.
Una parte degli studenti universitari italiani, cioè, vive già immersa in un contesto nel quale tanti materiali dedicati allo studio sono prodotti e reperibili in formato digitale (per non parlare di tutto il resto: dai contenuti informativi a quelli di intrattenimento, dai social network ai videogiochi). Tra questi, i contenuti testuali, oltre a essere maggioritari, vengono fruiti per lo più da computer (si tratta in gran parte di file pdf), a volte con smartphone, raramente su tablet o ereader. Ma tutte queste risorse, anche quando reperibili in formato digitale, di frequente vengono stampate su carta per essere studiate, e la prevalenza della carta (dei libri, in questo caso) sembra emergere anche da una recente indagine dell’Aie che, su un campione di 2.196 studenti, attesta l’utilizzo dei manuali tradizionali per l’81,4%, di testi on line per il 30,9%, di ebook per il 19,9%. Un inizio di convivenza, nel quale la carta svolge ancora un ruolo dominante.
Si tratta di una preferenza che, sommata alla dichiarata abitudine di stampare su carta per studiare, risponde assai probabilmente alla scarsa diffusione in Italia di device dedicati alla lettura lean back (comodamente possibile ovunque: in poltrona, nel tram o sul wc, che ancora associamo al libro di carta), ma a mio parere anche all’assenza di ambienti autorevoli e familiari in cui essere sicuri di reperire e ritrovare le informazioni e i contenuti che ci sono necessari.
Scarichiamo, copiamo, installiamo, accumuliamo, come e più di quanto abbiamo fatto e facciamo con i libri di carta. Lo fanno soprattutto coloro tra noi che non hanno una consuetudine con il prestito dei libri (di carta) in biblioteca, ma ci dedichiamo a quest’opera di accumulo un po’ tutti e per diverse ragioni:
- la percezione che i materiali digitali (ancorché duplicabili all’infinito) siano sommamente volatili e non vi siano sufficienti garanzie di reperirli nello stesso posto a distanza di tempo;
- la necessità di leggere off line testi lunghi (in proposito riscontro varie soluzioni, dal brutale copia/incolla di articoli on line in documenti di testo – facilmente perdendone le qualità ipertestuali – all’uso di strumenti evoluti come Instapaper);
- il puro piacere di possedere l’oggetto, per quanto immateriale.
Questa gigantesca opera di accumulo (giga e giga di dati che riempiono hard disk interni ed esterni, chiavette e nuvole di archivi) risponde anche all’assenza di luoghi digitali in grado di trasmettere la sensazione che procura percorrere con lo sguardo la propria libreria (o anche una biblioteca a lungo frequentata e familiare) e rassicurarsi, solo vedendola, di potervi attingere in qualunque momento.
Progetti come Internet Archive, Google Libri, Europeana, o la molto attesa Digital Public Library of America tenacemente voluta da Robert Darnton, per quanto grandi e solidi, non riescono ancora a restituire quel legame con un sapere stratificato nel tempo che ha nei libri di carta, da oltre cinque secoli nella forma più vicina all’oggetto che ancora teniamo in mano, il suo modello e campione.
Che c’entra tutto questo con l’insegnamento? C’entra perché, a maggior ragione in culture, come la nostra, nelle quali il sapere è stato visto più come qualcosa da trasmettere, che come occasione per creare una conoscenza critica condivisa (ovvero, quest’ultima si è formata comunque, ma in ambiti relativamente elitari), è grande lo smarrimento provocato dall’apparente assenza di luoghi deputati a sancire pertinenza e autorevolezza. Uno smarrimento che non riguarda solo coloro che su quel sapere hanno costruito propri poteri e privilegi (legittimi o usurpati), ma anche chi, dovendo abbeverarsi, si lasciava guidare senza timori alla fonte pura, secondo percorsi consolidati e pratiche rigorose (non sempre lineari e trasparenti, però).
Qualche giorno fa ho appreso che la Biblioteca Centrale del CNR (luogo deputato, in Italia, al deposito legale delle pubblicazioni tecnico-scientifiche e Centro di documentazione delle Istituzioni dell’Unione Europea) dal 1961 ha il proprio deposito in una “torre libraria di ben 14 piani“. Proprio così: torre libraria. Non infierisco sulle dotazioni informatiche e di personale che rendono l’accesso a tanto ben di dio alquanto arduo, ma ecco, non vi sentireste anche voi un po’ intimoriti di fronte a tanto alta, fisicamente e simbolicamente, vetta da scalare? E una volta arrivati a comprenderne gli arcani, non provereste un qualche fastidio se qualcuno rendesse accessibile, quanto e più di quel ben di dio, senza le vostre bussole? E infine, trovandovi nel mezzo, e avendo appena iniziato a intuire come fare per raggiungere la cima, non restereste come un rocciatore senza appigli, se durante l’ascensione una copia della torre si proiettasse e spalmasse ai vostri piedi, tutta percorribile senza fatica, ma priva dell’ordine garantito da un piano sopra l’altro?
C’è poco da sorridere, perché la condizione di quello scalatore a metà arrampicata è condivisa da buona parte degli studenti, dei docenti, dei bibliotecari e degli editori, mentre la torre spalmata a terra è contesa tra chi vorrebbe, dall’alto dei suoi strapotenti mezzi, erigere tutt’intorno una siepe curata e fiorita (ma con i fiori più profumati accessibili solo a chi paga, e di più), mentre lei, la torre, quasi fosse un corpo vivente, si adatta, prende forma e autorganizza grazie a sparuti gruppi di volenterosi che hanno imparato, non soltanto i tesori che nascondeva, ma anche le tecniche con le quali erano stati progettati e costruiti.
Quei benemeriti non sono volontari improvvisati con il recondito obiettivo di smantellare conoscenze critiche che abbiamo impiegato secoli a distillare, non sono predicatori dell’indistinto che tutto livella con buona pace di etica ed estetica e giubilo dei piccoli fratelli nazionali, e non sono neppure degli ingenui, sciocchi esecutori del “think positive!” dei Big Brothers globali. Magari qualcuno sì, ma non ci occupiamo di quelli in questa sede. Trattasi invece, per lo più (e inizio a conoscerne molte e molti) di persone che hanno compreso quali potenzialità si dischiudono imparando il modo migliore per usare, insegnare, insegnare a usare, le tecnologie digitali. Ne volete un esempio? Guardatevi lo streaming di Librinnovando che portava il titolo “Insegnare con i bit”:
In quella occasione è risultato palese come certe sommarie dicotomie – editori/lettori, docenti/studenti, carta/digitale – non solo siano obsolete, ma siano inefficaci a raccontare e raccogliere la straordinaria complessità rappresentata oggi dalla sfida che riguarda l’educazione e la didattica. Questa sfida è tra pensare, e iniziare a sperimentare un sistema dell’istruzione in grado di accogliere i veri nativi digitali quando, a breve, entreranno nelle aule, o restare a guardare, sfruttando per quanto possibile l’attuale situazione (e ciò vale per gli editori, per gli insegnanti, per gli studenti), o, peggio ancora, opporsi a tale processo da posizioni che confondono le potenzialità del digitale con gli interessi che vi si celano dietro.
Nei ragionamenti compiuti il 28 aprile, invece, abbiamo potuto ascoltare Dianora Bardi, una insegnante che sperimenta, attraverso il digitale, un nuovo modo di fare didattica: usando computer, lavagne interattive, tablet (iPad, ma dice “non ci interessano le marche, ci interessa il cosa e come lo possiamo fare”); che non si sogna neppure di produrre “ilsuolibro”, ma è assai esigente con gli editori, dai quali vuole libri di qualità, utilizzabili per porzioni e con prezzi adeguati; che non indulge affatto sulla preparazione degli studenti, ma vuole guidarli nella ricerca di risorse e fonti autorevoli, nella elaborazione di un proprio percorso di apprendimento e nella produzione di materiali risultato del lavoro collettivo della classe. E a domanda risponde polemicamente a proposito degli insegnanti che appaiono impreparati a simili compiti: “non ci si può sottrarre a questa sfida; non conta l’età, né l’attitudine all’uso delle nuove tecnologie; chi fa questo lavoro deve considerare il suo aggiornamento altrettanto importante della formazione dei suoi allievi”.
Quello di Gino Baldi è stato un altro intervento importante del medesimo panel di Librinnovando, anche perché pronunciato dal responsabile digitale di Giunti, un gruppo leader nell’editoria scolastica italiana. In cima a una lista di quattro punti (ottima la sintesi di Marco Dominici, ma invito anche io a guardare il video), essenziali per governare il cambiamento che ben presto attraverserà il sistema educativo, Baldi indica la necessità di pensare e progettare ambienti di apprendimento in luogo di oggetti per l’apprendimento. Ambienti in cui sia possibile adattare i materiali (resi flessibili e granulari) a gruppi ed esperienze diverse, in cui la funzione editoriale si esplichi attraverso l’organizzazione di un servizio aperto e non più solo attraverso la fornitura di un prodotto chiuso.
Dunque, docenti preparati a guidare gli studenti nella complessità del mondo e ambienti autorevoli che consentano di interpretarlo e sperimentarlo nelle sue molteplici manifestazioni; abbiamo alcuni esempi degli uni e degli altri, quelli dei fiori a pagamento hanno risorse con le quali vanno veloci e nessuno sa ancora che forma avranno domani le torri.
L’immagine in apertura è tratta da qui.
Dal 2005 insegno “Economia e gestione delle imprese editoriali” all’Università di Tor Vergata. Il Corso, che fino al 2007 si è chiamato Laurea Specialistica in “Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo”, dal 2008 è divenuto Laurea Magistrale in “Informazione e sistemi editoriali”, come previsto dal nuovo ordinamento.
L’esperienza che ho avuto l’opportunità di vivere insegnando in questo Corso è stata spesso faticosa, sommandosi alla direzione della casa editrice, un lavoro per me già tanto impegnativo. È stata a volte divertente, quando con gli studenti abbiamo condiviso con intelligente ironia la capacità di osservare il mondo con occhio attento e critico. È stata sempre stimolante, ancor più quando avvertivo uno scarto tra quanto andavo raccontando e l’assenza di una partecipazione attiva durante le lezioni.
Ho scoperto la passione per la didattica, una pratica che solo marginalmente, e in contesti assai diversi, avevo frequentato in passato. Ne ho potuto apprezzare la continua sollecitazione a misurarsi con le proprie convinzioni, la necessità di imparare a comprendere per spiegare, il richiamo al rigore e alla sistemazione delle proprie idee ed esperienze: faccende utili per me, prima di poterlo diventare per gli studenti.
Ho anche potuto apprezzare e condividere, pur tra le molte difficoltà che ne hanno segnato la vita in questi anni, l’impegno con il quale il Corso è stato orientato e diretto, ponendo una costante attenzione agli studenti, ai loro bisogni ma più ancora ai loro diritti.
Non è dunque per caso che il Corso, nonostante la sua breve vita, abbia ottenuto risultati rilevanti: uno dei corsi migliori della Facoltà per numero di iscritti (551 in 4 anni), percentuale dei laureati (58,7% nel biennio 2006/2008, un dato superiore alla media nazionale), qualità della didattica.
Ci si aspetterebbe che la Facoltà investisse su un Corso con tali caratteristiche, per esempio impegnandosi a integrare e sostituire, con un maggior numero di insegnamenti di ruolo, l’eccessiva presenza di docenti “a contratto”, presenza peraltro necessaria a garantire quella pluralità di conoscenze, competenze, sguardi che una Laurea di secondo livello dovrebbe proporsi come vincolo irrinunciabile.
Invece accade il contrario. Il 6 maggio scorso, durante la riunione dei presidenti dei Corsi di Laurea, il Preside ha proposto di “mettere a tacere”, per il prossimo anno, “Informazione e sistemi editoriali”; e di annetterlo a quello di “Progettazione e gestione dei sistemi turistici” (la ragione di tale scelta ha il sapore di una beffa ulteriore; qui l’elenco di tutti i Corsi di Laurea Magistrale) a partire dall’a.a. 2010/2011.
La decisione, se non sarà scongiurata, verrà votata dal prossimo Consiglio di Facoltà, martedì 12 maggio.
Ecco, se ho scelto di accettare la candidatura con l’Idv è anche perché in Italia questo può divenire un evento nella norma, qualcosa di cui non stupirsi, per cui non indignarsi e ribellarsi. Qualcosa che, operando quotidianamente sulla nostra pelle, crea i presupposti per le “riforme” peggiori, i tagli indiscriminati, le astratte invocazioni di un merito perduto chissà dove. Ma un atto come questo funziona soprattutto come dispositivo che mortifica e assoggetta, facendo apparire vana ogni forma di resistenza; e rende la formula “mettere a tacere” sinistramente adeguata nel restituire il senso di precise scelte di politica culturale.