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Lunedì scorso Lipperatura ha pubblicato la lista degli editori a pagamento e a doppio binario (quegli editori che prevedono il pagamento per una parte delle pubblicazioni). Una decisione che Loredana Lipperini ha preso in seguito alla rimozione della lista decisa dagli amministratori di Writer’s Dream, sito e forum nati su iniziativa di Linda Rando, prima a pubblicare la lista EAP e a subirne le conseguenze.
La quantità di commenti rapidamente accumulati nella pagina di Lipperatura (e altre parallele discussioni, per esempio su Twitter) dimostrano quanto spinoso sia l’argomento, quanto coinvolga gli autori e gli aspiranti tali e cosa possa accadere, scrive Lipperini in un commento, “quando si scoperchia un vaso di questo genere”.
Mi trovo in completo accordo con Loredana Lipperini e con chi sta pubblicando la lista in questo momento, sfidando minacce e querele; penso che la pubblicazione delle liste costituisca una risorsa “estrema” praticata da chi si oppone al velo di silenzio esistente attorno a queste pratiche. Un velo che nasconde troppo spesso business costruiti a spese di autori ingenuamente, o presuntuosamente, inconsapevoli e che inseguono impossibili sogni di successo. Preferibile sarebbe, da parte degli editori – a ciò serve la pubblicazione delle liste –, assumere comportamenti trasparenti e dichiarare quali sono le politiche editoriali adottate nella selezione delle opere per la pubblicazione, se e quali sono le forme di partecipazione al rischio della pubblicazione richieste agli autori. Cito ancora Lipperini:
E non per mettere sotto accusa nessuno, si badi: semplicemente per proporre all’autore una scelta consapevole. Nessuno condanna chi sceglie di pubblicare pagando, né chi decide di chiedere soldi all’esordiente come contributo. Forse, però, è corretto saperlo. [grassetti miei]
Per contribuire a questa “operazione trasparenza” vorrei allora iniziare dal racconto dell’esperienza personale che so assai diffusa nell’editoria di saggistica in Italia, augurandomi che altri editori attivi in questo ambito vogliano partecipare alla discussione.
La saggistica dedicata alla ricerca in Italia vende cifre irrisorie e far quadrare i bilanci è un’impresa più vicina all’impossibile che al difficile. Trattandosi di un dato assodato, autori, editori, traduttori e ogni figura coinvolta nella produzione di questo tipo di libri considera normale adoperarsi per finanziare l’edizione di opere che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere pubblicate.
I casi più frequenti riguardano le opere tradotte, le opere prime, gli atti di convegni e i libri collettanei, le riviste.
Opere tradotte
I costi di produzione di una buona edizione di un testo scientifico prevedono, oltre al pagamento dei diritti di traduzione all’editore dell’edizione originale, i costi di traduzione e (eventualmente) di revisione e commento al testo, in vista della sua presentazione ai lettori italiani. A questi si sommano tutti i costi standard previsti per qualsiasi pubblicazione (editing e correzione di bozze, carta e stampa, promozione e distribuzione, pubblicità nelle varie forme previste da un ufficio stampa).
Un editore sa che i valori delle vendite della gran parte di queste pubblicazioni non saranno in grado di coprire i costi di produzione, quindi, fin dall’inizio, si attiva per cercare forme di finanziamento che consentano l’operazione. Le più frequenti tra queste sono:
- contributi alla traduzione ottenuti dai Ministeri della Cultura dei Paesi in cui è stata pubblicata l’opera originale (in Europa, Francia e Spagna costituiscono i Paesi più attivi in tal senso);
- contributi alla traduzione elargiti dall’Unione Europea per contribuire alla circolazione delle lingue e delle idee (purtroppo, da alcuni anni, quasi annullati per la saggistica e orientati ai Paesi di più recente ingresso nella UE);
- contributi alla traduzione (o all’edizione) devoluti da un dipartimento universitario interessato alla pubblicazione dell’opera in questione.
Opere prime
Se le vendite sono mediamente basse per autori collaudati e docenti affermati (con ampio seguito di studenti e colleghi “amici”), diventano risibili per il ricercatore alla prima prova. E questo è un dato indipendente, tengo a sottolinearlo, dalla qualità dell’opera: più e più volte ho deciso la pubblicazione di meritevoli (a detta di molti) opere di giovani autori che hanno venduto (in anni di vita del libro) poche centinaia di copie. Quindi l’uso prevede, in questi casi, che un dipartimento (o, a volte, lo stesso ricercatore) si faccia carico di parte dei costi di edizione, oltre all’impegno a utilizzare il volume nei corsi propri e dei docenti amici, “obbligando” gli studenti ad acquistarlo. Naturalmente ciò avviene per i dipartimenti e i docenti che possono permetterselo (sempre meno, vedi tagli all’università), ma per molti pubblicare, e farlo con una casa editrice accreditata (vedi all’ambigua voce: editori che pesano di più nelle valutazioni concorsuali) significa sommare un mattone alle possibilità di carriera accademica. Qui si aprirebbe il capitolo, tra il desolante e l’orrido, riguardante le forme di reclutamento nell’Università: lo rinvio a una prossima puntata, ché pagina (ancorché virtuale) e stomaco (benché barbuto) hanno i loro limiti.
Atti e volumi collettanei
Qui non c’è discussione: si pubblicano solo opere che portino in dote all’editore un finanziamento. E ciò vale anche quando i testi vengono editati e rivisti dai curatori, quando gli autori (praticamente sempre) cedono a titolo gratuito lo sfruttamento economico del loro saggio, quando il lavoro dell’editore è, cioè, ridotto al minimo indispensabile e gran parte dei suoi costi si concentrano nei passaggi distributivo-commerciali, nonostante si tratti di opere che avranno una distribuzione in libreria irrisoria e la circolazione sarà per lo più basata sull’impegno degli stessi autori (adozioni in corsi, seminari, ecc.).
Riviste scientifiche
Come sopra: non si pubblicano senza un finanziamento su cui contare in partenza. Gli abbonamenti (anche delle più diffuse) si attestano sulle due cifre e sono drasticamente diminuiti con i tagli ai fondi delle biblioteche. La presenza in libreria è una chimera e la circolazione si basa essenzialmente sul passaggio di mano in mano da parte della redazione.
Questo il quadro nel quale opera la gran parte delle case editrici che pubblica “saggistica alta”: quelle opere di saggistica, cioè, dedicate a un pubblico di lettori certamente specialistico ma meritevole di vedere pubblicati i lavori innovativi, quelli che provengono da ambiti linguistici e/o culturali ai margini o fuori dal mainstream, gli studi di settore che aggiungono tasselli, minuti quanto si vuole ma importanti, al patrimonio di conoscenze collettive che in una parola chiamiamo “ricerca”.
È corretto precisare che la gran parte delle case editrici che opera in questo settore, quando pubblica utilizzando i finanziamenti di cui sopra, lo dichiara apertamente: basta prendere uno qualsiasi dei volumi o riviste cui faccio riferimento e aprirlo alla pagina delle gerenze per rinvenire l’indicazione della partecipazione ai costi di edizione.
L’operazione trasparenza, quindi, sembrerebbe inutile. Ma è davvero così? E, soprattutto, si tratta di un meccanismo sano? Ammettiamo che le cose funzionino come da descrizione e che le case editrici dichiarino apertamente la presenza di forme di contributo per l’edizione. Secondo voi, in base a quali criteri sarà più facile ottenere la pubblicazione? Sì, certo, ci sarà, tra gli editori più testardi e attenti alla costruzione del catalogo, una quota di pubblicazioni “a perdere” o che prevedono un rischio maggiore, ma la gran parte delle scelte sarà orientata dalla presenza di un finanziamento, e del finanziamento più consistente.
Tutte le discussioni, in rete e fuori, sull’assenza di una tradizione di University Press in Italia e sull’inesistenza di qualsiasi forma seria di peer review lasciano il tempo che trovano, di fronte a tale scenario che prefigura un solo risultato: la riduzione ai minimi termini di alcune iniziative editoriali e la limitazione della scelta a quelle arricchite da una dote generosa. Questo è lo scenario che mi ha fatto assumere la decisione di interrompere l’attività della Meltemi, non volendo trasformarla in una casa editrice “universitaria” all’italiana, una casa editrice costretta a pubblicare solo i libri finanziati.
Già immagino chi, arrivato fin qui, stia fremendo per non aver letto la parola digitale. Eccoci.
Le pubblicazioni digitali, nelle varie forme in cui sono possibili, dal solo testo, ai pdf agli ebook alle applicazioni (a pagamento e non), sarebbero il naturale sbocco per le ricerche di cui sopra. Ne sono convinta, tanto più per le distorsioni prodotte da un sistema per cui i lettori di tali opere sono di frequente gli stessi produttori e si trovano, quindi, a pagare tre volte: come cittadini, finanziando il luogo in cui quei lavori vengono prodotti, l’università; come ricercatori-autori che, per dare sbocco editoriale al proprio lavoro, devono far pagare ulteriormente l’istituzione in cui operano; come lettori, infine, che acquistano quelle stesse opere, costituendone il pubblico “naturale”.
Ma chiunque abbia a che fare con l’università sa bene che le pubblicazioni digitali non hanno valore a fini concorsuali: semplicemente, non sono contemplate. E infatti, nell’ultimo decennio, sono nate alcune “University Press” su iniziativa di Atenei, di editori o miste che prevedono la pubblicazione on line e la stampa on demand di un numero minimo di copie: tutti i casi di questo tipo che conosco prevedono comunque un pagamento per la pubblicazione, anche per la sola edizione digitale; nessuno dei casi che conosco è dotato di un sistema trasparente di valutazione delle proposte e scelta delle pubblicazioni [edit: felice se riceverò smentite documentate].
Qualcosa, però, inizia a muoversi anche in Italia e, per esempio, si diffondono le riviste scientifiche che usano software open source, sono disponibili secondo canoni open access e adottano forme di valutazione e di peer review riconosciute internazionalmente (un esempio eccellente in Italia è la piattaforma Sirio dell’Università di Torino). Così come si diffondono iniziative di condivisione delle conoscenze aperte e libere, per fare un solo esempio: Oilproject: quasi sempre si tratta di iniziative nate su base volontaria e spesso la loro esistenza condivide la condizione di precarietà permanente di analoghe attività culturali. Chi non vuole pubblicare solo per avere un titolo da spendere per il prossimo concorso, insomma, di strade ne ha in abbondanza e in molti già le percorrono.